“Austerlitz”, l’ultimo film del cineasta bielorusso Sergei Loznitsa, esce in occasione della Giornata della Memoria, come “Il viaggio di Fanny” di Loila Doillon. è un ottimo esempio di uso positivo delle immagini riferite alla tragedia dell’Olocausto: nel riprendere, a inquadratura fissa e senza alcun tipo di commento, molte centinaia di visitatori del museo ospitato nell’ex lager a 35 km da Berlino, ne svela l’atteggiamento “turistico”, appunto. Tra foto-ricordo, selfie e qualche sbadiglio
Viviamo in una società che tende a tramutare qualunque cosa in consumo. Il fatto è ormai noto ai più. L’accumulo indiscriminato di ogni entità, fisico-materiale o meno, è direttamente collegato all’idea di intrattenimento come arma di distrazione di massa, fenomeno che riesce ad anestetizzare le coscienze in modo chirurgicamente efficace. Che succede però se questo procedimento viene esteso anche ai rapporti umani, al dolore, alla morte? A quale grado di anestesia si può arrivare? Risponde alla domanda Austerlitz, l’ultimo film di Sergei Loznitsa, cineasta ucraino nato in Bielorussia, che documenta l’impatto del turismo di grandi numeri con uno dei massimi orrori del XX secolo, l’Olocausto, riprendendo con oggettività assoluta, quasi asettica, i visitatori del museo di Sachsenhausen, allestito all’interno di uno dei campi di concentramento nazisti più tragicamente noti, a soli 35 chilometri da Berlino, attivo durante tutta la Seconda Guerra Mondiale.
Il documentario è tanto minimale quanto efficace: una serie di inquadrature fisse in bianco e nero riprendono i movimenti dei turisti, che restano per gran parte del percorso sorridenti (qualcuno perfino annoiato) e si scattano reciprocamente foto davanti a forni crematori e camere a gas, o ai lunghi pali di legno ai quali i prigionieri venivano impiccati o fucilati. Il cinema in questo caso decide di annullarsi, rinunciando ad ogni commento scritto o parlato, e lascia spazio completo solo all’immagine, che ci mostra un nuovo livello di pornografia del dolore: il consumo cinico e inconsapevole della sofferenza.
Austerlitz, che è ispirato all’omonimo romanzo di W.G. Sebald e sarà nei cinema dal 25 gennaio, alla vigilia della Giornata della Memoria, si inserisce in una tendenza resistenziale che è stata affrontata di recente anche in un altro film sull’argomento, Il figlio di Saul dell’ungherese Lászlo Nemes, premio della Giuria a Cannes 2015. Entrambe le opere si spogliano volutamente di ogni apparenza empatica, di ogni edulcorata rappresentazione del dramma, e si pongono davanti al pubblico per quello che sono, non portandolo a forza verso un determinato sentimento, ma lasciando che la coscienza di ognuno sia libera di affermare le proprie emozioni, non distolta da una trasformazione sottopelle della terribile realtà in accattivante spettacolo.
A ben vedere comunque, prima di queste due eccezioni, il genere cinematografico del film sulla Shoah (che ormai è diventato un vero e proprio genere: il 26 e 27 gennaio sarà nelle sale anche Il viaggio di Fanny di Loila Doillon) aveva preso tutt’altra direzione, usando i drammatici temi presenti al suo interno quasi come arma di svago, attraverso montaggi veloci e musiche incalzanti, e puntando tutto sulle armi che una narrazione classica possiede per portare lo spettatore a empatizzare per quello che alla fine è un personaggio di fantasia, sebbene ispirato a storie realmente avvenute.
Ma quale può essere il rischio di trattare una tema così importante, per le fondamenta del nostro vivere comune, in modo attiguo al senso più classico di spettacolo? Cosa accade se il cittadino medio si avvicina alla conoscenza degli eventi soprattutto grazie alla visione di opere che, sebbene trattino temi terribili, per come viene ideato il loro contenente partono comunque da una base di intrattenimento che spesso finisce per relegarle nell’angolo dell’irrealtà, della finzione? Quando sarà poi messo di fronte a situazioni simili ma reali, magari anche viste solo da lontano, poco avrà imparato da questa rappresentazione posticcia di un passato disumanizzante, rischiando di disumanizzarsi a sua volta, perché non veramente immunizzato dai moniti della storia.
L’immagine ha un potere ambiguo, è un’arma contraddittoria: se usata in un certo modo può fondare una visione pura del reale, esistere proprio perché resiste a ogni sovrastruttura incardinata in specifici rapporti di potere. Se inquinata invece da mistificazioni di stile e di forma può ingannare, e proporsi di far credere allo spettatore quello che vuole. Per questo il cinema, primario portatore della potenza dell’immagine, è l’arte che riesce a rispecchiare meglio la realtà o la sua terribile, a volte ambigua, mistificazione. Se la controtendenza che film come Austerlitz cercano di introdurre nell’immaginario collettivo dovesse in futuro risultare vincente, forse potremo dire di aver scongiurato l’arrivo di un ulteriore imbarbarimento: ma l’onda della civiltà occidentale negli ultimi decenni non garantisce certo una simile svolta positiva. L’immagine del reale non dovrebbe mai essere usata per manipolare: ma il cinema, come l’essere umano che lo crea e lo usa, inquadratura dopo inquadratura, può essere molto pericoloso.