Gabriele Lavia adatta, dirige e interpreta l’Uomo dal fiore in bocca, da Luigi Pirandello: ne esce fuori una riflessione sentita, immaginifica, astratta. E volutamente lontana dal concetto di realtà
Milano, via Pier Lombardo, Teatro Franco Parenti, Sala Grande.
Ci si siede in una sala gremita di gente.
Man mano che le persone entrano in sala il rumoreggiare di sottofondo di voci che si mescolano tra loro nel raccontarsi gli ultimi avvenimenti, si placa.
Quello che si presenta agli spettatori ignari mentre avanzano verso il loro posto è un sipario aperto su un’imponente stazione di primo novecento, realizzata in modo incredibilmente realistico.
Così Gabriele Lavia sceglie di presentare il suo nuovo spettacolo ripreso da un testo di Luigi Pirandello, L’uomo dal fiore in bocca, di cui arricchisce i temi con altre novelle che trattano della morte e del rapporto con la figura femminile.
Si spengono le luci, quando si riaccendono in scena un uomo, l’uomo, dal fiore in bocca, un filosofo della vita forse, lo stesso Gabriele Lavia. Una delle personalità più importanti del panorama teatrale contemporaneo. Forse uno dei pochi che può ancora ragionare su Pirandello e tirar fuori qualcosa di interessante. Il suo uomo dal fiore in bocca, tanto per cominciare, è a-reale, completamente estraneo agli affari quotidiani, al trambusto della vita: sembra trovare serenità solo in una contemplazione del mondo che è ieratica, o meglio, liberissima da ogni vincolo.
Un dramma, quello originale di Pirandello, che è molto breve: Lavia riesce, con maestria, a elasticizzarlo fino ad arrivare alle due ore. Con l’arte della maieutica che ci viene da Socrate conduce lentamente il pacifico avventore che ha perso il treno ad interrogarsi – ed educarsi – sul dramma della vita, sul vero significato di cosa voglia dire “esistere”.
In questo riadattamento teatrale l’avventore parla, dialoga col nostro filosofo non è un semplice ascoltatore, una pedina nelle sue mani, ma una pedina nelle mani della vita stessa. Ha perso il treno, lo perderà sempre, e lì approfittando della facilità delle confidenze tra due sconosciuti non si parla solo della morte, accostata ad una figura dolce e femminile…
epitelioma, un nome dolce, come una caramella
ma si parla anche della della donna e del rapporto coniugale: nel testo di Lavia si avverte in modo indubbio come per Pirandello questa figura sia controversa. Abbiamo in scena un uomo, l’avventore, che dimostra la sua spiccata misoginia…
La rovina della società è il femminismo, che vuole che la donna sia uguale all’uomo
E un altro che sostiene che non ci sia al mondo una cosa più bella della donna e a tratti e in modo quasi grottesco prova verso di lei una grande avversione.
Una presenza muliebre passa con insistenza dietro una vetrata: è inequivocabilmente lì per l’uomo, ma non si assume mai la responsabilità di un ruolo reale.
La donna in scena, Barbara Alesse, è solo un’ombra – forse l’ombra della morte stessa – da cui il nostro Lavia tenta di fuggire, cercando anche di finirla a colpi di rivoltella. Quell’arma che, trascinato all’esasperazione, punterà verso se stesso.
Uno spettacolo complesso, quello di Gabriele Lavia, che gioca sulle emozioni e le de-struttura cercando reazioni spiazzanti, inattese. Michele Demaria, l’avventore, appare vuoto, smorto, di poco peso, inerte.
Lavia, l’uomo dal fiore in bocca, al contrario emerge cinico e misogino nel parlare allo sconosciuto e nello stesso sognante e sognatore nel parlare dell’essenza stessa della vita.
La scelta in apparenza realistica – osiamo: cinematografica – Alessandro Camera alle scene di ambientare la pièce in una stazione, per antonomasia un non-luogo, in realtà si rivela essere foriera di simboli. Un posto da cui si parte e in cui si arriva, simbolo di un viaggio che non è definito: non ha tappe o destinazioni, se non quelle dettate dal ritmo della vita.
Sopra l’imponente vetrata della stazione troneggia un orologio senza lancette, simbolo di un tempo che è immobile, filosofico, distante anni luce dai concetti di realtà e di fisica. Gli unici elementi che ci fanno pensare che il tempo esiste ancora sono i suoni, padroni fortissimi del dramma; i treni che fischiano e che partono, i tuoni di un temporale estivo, così forte e così assurdo che ricorda i paradossi delle nostre esistenze.
Una recitazione e una regia curate nei dettagli, una forte ripetizione di gesti, come il tentato omicidio della donna, che non sono reali, ma che assumono una grande forza rituale lungo tutto lo svolgimento del dramma.
E così, carico di tutti questi elementi, lo spettacolo finisce con l’uomo che perde ancora una volta il suo treno a causa dei mille pacchetti e pacchettini che vorrebbe portare alla moglie (palliativo per ogni asperità) e che gli impediscono di prendere un treno salvifico, condannandolo a rimanere bloccato in un altrove di cui non ci si può liberare. Da questa stazione non può partire né cominciare nessun viaggio.
(foto: Le Pera)