Un Denzel Washington da oscar racconta i neri dell’America anni ’50

In Cinema

L’attore-regista e la sua partner Viola Davis candidati alle statuette (come il film e l’adattamento dalla piece teatrale da cui è tratto) grazie a “Fences”, ritratto di un esuberante membro della working class di colore in una Pittsburgh ormai d’epoca. L’eccellente prova degli interpreti dà forza alla drammatica parabola, forse un po’ verbosa, di un padre padrone “bigger than life” che si batte per i diritti della sua gente ma intanto rinchiude moglie e figli nel recinto, non solo materiale, della villetta di famiglia

Nella Pittsburgh degli anni Cinquanta raccontata da Barriere di Denzel Washington, Troy Maxson (Washington) fa il netturbino ed è arrabbiato col mondo. Pretende (giustamente) di avere gli stessi diritti dei bianchi, ma pensa che conquistarsi il diritto di guidare il camion della nettezza urbana, invece di stare aggrappato dietro a svuotare i bidoni, sia più che sufficiente. Parla incessantemente, quasi senza prendere fiato, e rivendica il diritto/dovere di dire la propria, di non lasciare che altri prendano la parola al posto suo.

Peccato che tale diritto ai suoi due figli non sia minimamente disposto a riconoscerlo. Soprattutto perché i suoi due figli, nel recinto che ha approntato per loro, non ci vogliono proprio stare. Il figlio, Lyons (Russell Hornsby) suona il jazz, che Troy aborre preferendo di gran lunga il blues, mentre il minore Cory (Jovan Adepo) vorrebbe andare al college e giocare a football: una doppia sfida per il padre, che da giovane avrebbe potuto diventare un campione di baseball ma non ce l’ha fatta, così è convinto che nulla sia cambiato e che ai negri (sì, la stagione del politically correct era ancora di là da venire) sia ancora e per sempre preclusa la strada dello sport da campioni e da professionisti.

L’unica a cui Troy sembra riconoscere un minimo diritto di parola è la moglie Rose (Viola Davis): ma anche in questo caso la disponibilità all’ascolto è solo apparente, e si infrange contro il più banale dei muri: un tradimento a lungo tenuto nascosto, una confessione tardiva ed esplosiva, che fa tabula rasa di ogni amorosa fiducia e affettuoso legame. Condannando l’indomabile protagonista al peggiore dei castighi, per chi come lui è prima di tutto un affabulatore incontinente: il silenzio. Perché sia le parole che il silenzio, in fondo, dipingono lo stesso mondo, che somiglia a un recinto dove tutti cercano qualcosa, una forma di perdono, un qualche tipo di redenzione: e alla fine, se va (molto) bene, ottengono qualcosa che somiglia solo in (minima) parte a quel che volevano.

Dopo aver vinto due Oscar (nel 1990 per Glory e nel 2002 per Training day) come miglior attore (e Barriere è in corsa per quattro statuette, al film, ai due protagonisti e all’adattamento), e aver firmato due film come regista, Denzel ha deciso di tornare dietro la macchina da presa per portare sugli schermi la pièce Fences di Auguste Wilson, vincitrice del premio Pulitzer nel 1983, che ha già interpretata a teatro nel 2010, con al fianco proprio Viola Davis.  Ma se il Denzel Washington regista si contiene, fa un passo indietro, a tratti si fa semplicemente invisibile, il Denzel Washington attore conquista il centro della scena con arrogante disinvoltura, scandendo con un’energia solenne e al tempo stesso incandescente ogni singola frase, ogni battuta, ogni esclamazione, di rabbia, paura o sconforto che sia. E ogni tanto, bisogna ammetterlo, l’impressione che lo spettatore riceve è di qualcosa di troppo pieno, un eccesso di parole, una logorrea: che corrisponde alla perfezione alle caratteristiche bigger than life del protagonista, ma potrebbe risultare un po’ indigesta allo spettatore medio.

Comunque il film è questo, prendere o lasciare. È un abito tagliato sulla misura di Troy Maxson, delle sue ossessioni e delle sue paure, del suo bisogno di inclusione (nel sogno americano) e del suo desiderio di radicale alterità (alla ricerca di altri sogni, costeggiando altri incubi).

Anche se la situazione degli afroamericani oggi è ben diversa rispetto a quella degli anni Cinquanta, Denzel ha scelto di portare sugli schermi questa storia e non altre come una precisa scelta di campo, perché i fantasmi di schiavitù sono ancora vivi nella società americana, e perché tanta strada è stata fatta ma altra ancora ne manca. E i recinti di cui questo film parla (fin dal titolo) sono ancora in gran parte lì. A proposito di titoli, l’originale Fences sarebbe stato forse meglio tradurlo proprio con “recinti”, al posto di “barriere”. Proprio perché nell’idea di “recinto” c’è molto forte l’elemento di ambiguità. Il recinto serve a proteggere, quindi a tenere fuori gli estranei, i potenziali nemici, ma serve anche a limitare il libero movimento di chi sta dentro, confinato nel ruolo che la società ha scelto per lui. E a quel punto il recinto diventa qualcosa che esclude, una barriera, appunto, spesso impossibile da superare.

Barriere, di Denzel Washington, con Denzel Washington, Viola Davis, Stephen Henderson, Russell Hornsby, Jovan Adepo

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