Immersa in un surreale neoclassicismo bavarese, la regina di Babilonia del popolare dramma lirico di Rossini prende casa fino a luglio al Bayerische Staatsoper di Monaco diretta con mano sicura da Michele Mariotti
Strano per un milanese, abituato ai fasti assiri della Stazione Centrale, dover andare fino a Monaco per l’opera di Rossini sulla regina di Babilonia: Semiramide. Ma può anche andare bene sentirla in Max-Joseph-Platz, nell’esplosione di surreale neoclassicismo bavarese, in cui sembra plausibile l’accostamento di colonne corinzie del Nationaltheater al finto Palazzo Pitti della Resdenz. Di certo va ancora meglio se la locandina è come quella proposta dalla Bayerische Staatsoper di Monaco, con i migliori rossiniani di oggi: direzione di Michele Mariotti, voci di Joyce DiDonato, Daniela Barcellona e Alex Esposito.
Opera macchinosa, prolissa, superficiale: tutte gliele hanno dette. Secondo Massimo Mila la musica è addirittura «spregevole». E riesce così a essere più severo di Dante, che per questa Lady Macbeth un po’ incestuosa si era limitato al girone dei lussuriosi, dove in fondo stava in simpatica compagnia. Lady Macbeth ma non solo, anche Gertrude per l’antefatto amletico dell’opera, con Semiramide e l’amante Assur assassini del re Nino. Ma poi le attenzioni della regina si spostano sul giovane Arsace, salvo scoprirne la parentela stretta, anzi strettissima, in ovvia analogia con la tragedia greca e i suoi amori non censurati tra Edipi e Fedre dell’inconscio. Eppure l’ultima parola spetta a Voltaire, vera fonte dell’opera, il quale ritraduce il tragico in drammatico con nobile semplicità e il gusto di chi vuole piacere più all’orecchio che al cuore.
Ecco un motto che potrebbe andare bene per tutto il Rossini serio, nel senso di una «sfacciata glorificazione del potere della musica», come scrive Philip Gossett. Solo da questa prospettiva si coglie come queste architetture siano imponenti senza essere ingombranti. Il merito va a una partitura stilizzata ma rivestita di lussureggianti fiati e fanfare che rievocano una Mesopotamia ideale, evaporata nell’iperuranio ma che sta in piedi su un solido equilibrio neoclassico. Viene da contraddire il famoso consiglio di Beethoven: quindi caro Rossini, scriva più opere serie!
Ambientato in un palazzo del potere orientale vagamente sovietico, lo spettacolo di David Alden funziona pur seguendo una linea un po’ superficiale e con qualche passaggio misterioso. Ma tecnicamente è ineccepibile: con le scene di Paul Steinberg non potrebbe andare diversamente. Inoltre migliora di numero in numero (musicale) e non mancano alcune trovate divertenti, non disprezzabili per quattro ore di opera in cui sostanzialmente non succede niente.
Il cast è eccellente. Debutto per Joyce DiDonato, fantasmatica presenza in nero con voce gelida e luminosa insieme, tra le pochissime al mondo in grado di cantare la parte di Semiramide, giustamente attenta più al testo e all’accento che ai virtuosismi. Debutto anche per Alex Esposito, Assur dai colori sempre più minacciosi fino all’assillo finale di apparizioni ed Erinni. Complessa e interiore anche la lettura di Arsace di Daniela Barcellona, sempre perfetta per la scrittura rossiniana.
Con personalità da grande direttore, Mariotti svela fin dalla Sinfonia le sue migliori intenzioni. Tempi coraggiosamente dilatati, dinamiche intense e sempre interessanti, l’ottimo controllo dell’orchestra e delle sue sorprese timbriche, soprattutto nei recitativi accompagnati – meraviglioso il tremolo nell’entrata di Arsace nel secondo atto. Ma anche le peggiori, come i rubati che troppo spesso non vogliono saperne di stare nella battuta: certo sono scelte, ma forse lontane dalla delicata dialettica di quest’opera. Eppure basta la più semplice modulazione, come nel duetto tra Arsace e Semiramide, e subito Mariotti riesce ad avvolgere i personaggi di una luce patetica e struggente. E questo vale più di qualsiasi rubato.
Immagini © Wilfried Hösl