Una serie di eventi a Zona K per raccontare l’identità dell’Europa, forgiata (e dilaniata) da conflitti sanguinosi del secolo scorso. Ma quanto siamo cambiati da allora?
EUROPA! EUROPA! Dalle parti di ZONA K il titolo della stagione 2017 suona come un’esclamazione di esultanza, un grido d’approdo, come se, al cospetto del vecchio continente, ci si trovasse di fronte alla (ri)scoperta di una terra promessa: agognata, immaginata e tuttavia ancora incognita. E, in fondo, è proprio così: politicamente, economicamente e perfino da un punto di vista geografico, l’Europa appare ai più come un oggetto misterioso, alieno, talvolta inospitale nel suo essere foriero di sanzioni e tasse, talvolta benevolo e rassicurante se si pensa al suo mezzo secolo di pace (se si sceglie di omettere i conflitti balcanici).
Un “nuovo” vecchio continente che non rappresenta solo le nostre radici, ma che, volenti o nolenti, costituisce il nostro presente e, con ogni probabilità, il nostro futuro prossimo. Per affrontare la questione l’associazione di via Spalato mette allora in campo quattro movimenti, quattro focus tematici di cui WAR (a cui si aggiungeranno nel corso dell’anno DEMOCRACY, URBAN e NOW) è l’atto iniziale. Si vis pacem para bellum, dicevano del resto gli antichi e, in effetti, se ancor oggi si guarda all’Europa unita con un certo affetto – nonostante le innegabili mancanze, le contraddizioni interne e le evidenti responsabilità nella gestione della crisi economica – è perché per ottenere questa comunità trans-nazionale, di sangue ne è stato versato in abbondanza nel corso dei secoli.
Lo ricordano Marta Gilmore e gli Isola Teatro con Friendly Feuer (foto in copertina) – una polifonia europea, dove ad essere portata in scena è la memoria collettiva di quanti si trovarono durante la Grande Guerra a fare i conti con un processo storico fagocitante, in cui anche il “fuoco amico” rappresenta un sintomo dell’impossibilità di sottrarsi a logiche imperscrutabili e meccanismi superiori.
Il tema del (Grande) rifiuto alla guerra è anche al centro dell’opera del collettivo tedesco Ligna (foto sopra) che, nella propria performance, trasforma gli spettatori in soggetti attivi, chiamandoli a rispondere a comandi e a stimoli narrativi impartiti attraverso auricolari/audio-guide, secondo una formula ormai nota al pubblico milanese proprio grazie agli sforzi di ZONA K, promotrice, negli ultimi anni, dei lavori di Roger Bernat (Domini Pùblic) e dei Rimini Protokoll (REMOTE X). Ma se le implicazioni meta-teatrali di questo tipo di teatro partecipato, la sua portata “immersiva” e politica risultano attualissimi e sempre più al centro del dibattito critico – proprio al tema “teatro e devices” è dedicata la prossima pubblicazione di “Stratagemmi-prospettive teatrali” –, bisogna ammettere che nel lavoro dei Ligna non si ritrova la stessa solidità strutturale dei suoi “illustri” predecessori. L’architettura “partecipata” del Grande rifiuto sembra infatti vacillare sotto il peso di una drammaturgia troppo ingombrante nella prima parte (difficile stare dietro ai diversi dati storici mentre si seguono le istruzioni per prendere parte alla rappresentazione), quanto aleatoria e un po’ ripetitiva nella seconda, dove fanno capolino i riferimenti al presente. Rimangono alcune suggestioni interessanti che pungono lo spettatore nel vivo, come quando, spinti dall’ennesimo comando in cuffia, ci si trova a dover discutere con un altro partecipante dell’ultima volta che ci si è rifiutati di fare qualcosa. È a braccetto di uno sconosciuto e con un certo sgomento, che si è costretti a prendere coscienza di come il rifiuto (soprattutto se politico) stia scomparendo dal nostro ideologico quotidiano!
La recente storia europea e la riflessione antibellica sono la materia che innerva anche il bellissimo Legionāri – Diskusija ar kaušanos del regista lettone Valters Sīlis, dove si narra, all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, la contesa tra Svezia e Unione Sovietica su centosessantasette soldati baltici, in forza (anche se in buona parte coatti) alle truppe naziste. Sul palco Carl Alm e Kārlis Krūmiņš riescono in poco meno di due ore, a ripercorrere alcune delle tappe salienti del processo che porterà all’estradizione in Siberia (e quindi in buona parte alla morte) dei prigionieri, offrendo uno spaccato vivissimo e, al contempo, agghiacciante del contesto politico-marziale. La guerra e le logiche che la sottendono – ci suggerisce il registro espressivo dei due attori – nascondono un’anima intimamente grottesca ma non per questo meno feroce: la meschinità umana e la prepotenza si celano anche dietro a un’apparente stupidità, a una supposta e innocentissima equivocità linguistica. Quello di Legionāri è un teatro politico di grande efficacia, dove una drammaturgia calibratissima sa conciliare riflessione personale e accuratezza del dato storico, consegnando allo spettatore un’opera vibrante, tesa e antiretorica, eppure toccante e trascinante nella sua ironia amara.
A chiudere il ciclo di WAR sarà infine, settimana prossima, l’attesissimo ritorno degli Agrupación Señor Serrano (foto sotto) , gruppo di punta della nuova Avanguardia Catalana, che aveva già incantato il pubblico di ZONA K a dicembre con le funeste vicissitudini degli orsetti gommosi protagonisti di KATASTROPHE. Questa volta, con A HOUSE IN ASIA (in scena il 27, il 28 febbraio e l’1 marzo al CRT), il collettivo barcellonese si occuperà della cattura di Bin Laden, in un “western teatrale” che promette di mettere a nudo i meccanismi che governano la messa in scena e, in un certo senso, la realtà stessa, secondo il proprio personalissimo stile fatto di riproduzioni in scala, regia esibita e riprese video.
La prospettiva sulla guerra, non è del resto, per noi europei, qualcosa di mediato? Uno spettacolo a cui assistere da dietro lo schermo, in terza persona? Una distanza fittizia che ci allontana dai palcoscenici bellici, ma non dalle nostre responsabilità politiche di cittadini? EUROPA! EUROPA! Nelle orecchie di alcuni il grido di esultanza suona già come una supplica, i meno indulgenti pensano ormai a un aperto rimprovero.