“L’animale notturno” di Andrea Piva parla di soldi. E anche di un’improbabile scalata al successo. Ma soprattutto è una dura storia di sopravvivenza. Un’impietosa analisi sul ruolo – o meglio, sull’impossibilità di un qualsiasi ruolo – dell’intellettuale nella società italiana contemporanea. Sullo sfondo una Roma bella e corrotta da togliere il fiato
Ricordo con precisione il momento in cui ho deciso di diventare ricco. Comincia così L’animale notturno, il nuovo romanzo di Andrea Piva, già sceneggiatore del film LaCapaGira (David di Donatello, Nastro d’argento e Ciack d’oro) e autore di Apocalisse da camera.
Se pensate che un incipit come questo sia “inusuale per la scena letteraria italiana” (come recitano quasi tutte le recensioni che ho letto), ma soprattutto che non abbia niente da dirvi, non scoraggiatevi e andate avanti.
È vero: questo romanzo parla di soldi. E anche di un’improbabile scalata al successo. Ma non ha niente a che vedere con arrivismo e sete di denaro (dimenticate quindi gli scenari alla The Wolf of Wall Street). Al contrario: è una dura storia di sopravvivenza. Un’impietosa analisi sul ruolo – o meglio, sull’impossibilità di un qualsiasi ruolo – dell’intellettuale nella società italiana contemporanea. Sullo sfondo (il che non guasta) una Roma bella e corrotta da togliere il fiato, raccontata con occhi sinceramente innamorati.
Protagonista e narratore di questa storia è Vittorio Ferragamo. Sceneggiatore appassionato e idealista, a trent’anni, come scrittore di cinema è già riuscito sia a sfondare che a miseramente fallire (p. 11).
All’inizio del romanzo lo troviamo in un brutto momento: ha appena rotto con la sua fidanzata, la sua carriera è in situazione di stallo e soprattutto odia il posto in cui vive. Decide quindi, in modo non perfettamente logico se vogliamo, che per migliorare la sua condizione deve partire dall’ultimo punto. Così si dà alla ricerca di una casa al di sopra delle proprie possibilità.
Il piano è più o meno questo:
Se nel cambiare casa mi fossi costretto a spendere più di quanto potevo mi sarei di conseguenza anche dato da fare di più per riuscire a sostenere le maggiori spese. Davanti all’impossibilità materiale di pagare l’affitto, qualcosa mi sarei inventato (p.15).
Che forse non è un gran piano, d’accordo, ma in qualche modo funziona. Per una straordinaria serie di coincidenze, proprio grazie alla sua nuova casa in centro a Roma, Vittorio incontra un ultraottantenne con il vizio del gioco, che gli spalanca le porte del Texas Holdem.
Nel giro di qualche mese, quindi, il protagonista centra in pieno il suo obiettivo iniziale (almeno quello dichiarato). La strada che imbocca, tuttavia, lo allontana dal mondo del cinema e della cultura. Poco male, sembra dirci sprezzante fin quasi all’ultimo. Eppure qualcosa non torna:
È chiaro che ho davvero trovato la mia via personale verso i soldi, ma ora che ci sono è altrettanto chiaro che in realtà non sono arrivato da nessuna parte (p.362).
Nell’amarissima presa di coscienza finale emerge con massima evidenza la doppiezza del personaggio di Vittorio. Doppio è il suo atteggiamento di fronte al successo nel poker, che lo esalta e lo deprime al tempo stesso; ma anche nei confronti del cinema, che disprezza in sala e alle feste, invidiandone la pienezza di vita; del suo nemico giurato, che maledice e rimpiange; perfino dei suoi genitori, lontanissimi non solo geograficamente, ma rappresentanti dell’unico sistema di valori che conosce. Questo non perché sia un falso, anzi. Ferragamo è ambiguo perché incessantemente, e anche con un certo compiacimento, va in cerca della verità sulle sue azioni.
Quella a cui assistiamo nel romanzo è, in effetti, la sua personalissima retrospettiva sulle ragioni, i comportamenti, ma anche il ripido concatenarsi di accidenti (p.14) che l’hanno portato a diventare l’animale notturno del titolo.
Per farlo, il narratore prova a oggettivare il racconto rivolgendosi direttamente al lettore. L’espediente è senz’altro un po’ datato. Mi viene da pensare che con questa scelta l’autore voglia alludere, con ironia, alla tradizione letteraria classica. L’impressione si rafforza osservando il linguaggio dell’animale notturno. Vittorio parla una lingua colta, elaborata, a volte anche difficile da seguire. È una lingua senz’altro affascinante: periodi lunghi, ricche figure retoriche. Una lingua “quasi classica”, appunto, che ha una sua nobiltà e un suo senso finché rimane nei pensieri del narratore, finché serve a seguire le sue elucubrazioni e i suoi movimenti interiori. Ma che risulta assai meno riuscita, trovo, quando deve rappresentare in modo credibile il parlato. Penso per esempio a quando il narratore disserta sull’uso dell’espressione lol, oppure cerca di dar conto degli ibridi linguistici della lingua del poker:
“Crusha” è italianizzazione all’indicativo presente del verbo to crush, che significa vincere con facilità, letteralmente distruggere il gioco. E ora è certo che i ragazzi si sono inventati una loro lingua pokeristica personale infilando termini inglesi in vestiti italiani; strettini, sì, ma abbastanza elastici da rimanere comprensibili anche così deformati. (p.344)
Qui, nonostante l’autore padroneggi perfettamente le armi dell’ironia e della polemica, la trattazione si fa sterile. Questa stessa pesantezza è presente anche a livello di trama: tutto preso dai suoi guai, il narratore porta in giro il lettore, gli presenta dei personaggi e poi li abbandona come se niente fosse (vogliamo parlare per esempio di quanto è simpatico il padrone di casa di Vittorio? Perché da un certo punto in poi non lo si nomina nemmeno più?). E condivido Fofi quando afferma che:
Ma anche l’autore si perde nella realtà come l’io narrante, divaga e ritorna dentro un girovagare ora necessario e ora a vuoto, che accumula e non sa stringere con la durezza cui sembra invece aspirare (Internazionale 27/01/17, p.80)
Ciò nonostante, è innegabile che l’Animale Notturno sia un romanzo in grado di sollevare domande, soprattutto in chi è diviso tra l’ambizione di lavorare nel mondo della cultura e il desiderio – forse altrettanto vano – se non di diventare ricco come il protagonista, almeno di non fare debiti.
In questo senso, Piva offre uno spaccato di realtà amaro e preciso. Una fotografia onesta, caricata quel che basta per renderla interessante, di quello che si agita nella mente del letterato di oggi.