Un bel libro di Alessandra Acocella ripercorre una stagione, poco nota, della storia dell’arte contemporanea italiana quando le sperimentazioni più aggiornate sembravano destinate ad abbandonare i normali circuiti espositivi per occupare e informare lo spazio urbano. Queste le nostre impressioni.
«L’aspetto nuovo di questa manifestazione consiste nella rottura definitiva con schemi che hanno sempre costretto l’artista a scegliersi uno spazio obbligato e limitante. Finalmente lo spazio di una città o meglio lo spazio e basta, come unico mondo possibile e come ambiente espressivo per eccellenza». Con queste parole Claudio Parmiggiani spiegava le esigenze alla base di Parole sui muri, happening collettivo da lui organizzato a Fiumalbo nel 1967. L’arte d’avanguardia dello scorcio degli anni Sessanta, infatti, voleva esplodere al di fuori dei normali circuiti espositivi recuperando quella dimensione pubblica, utile e democratica che sembrava attuabile soltanto all’aperto, meglio se lontano dai grandi centri artistici di Milano, Roma e Torino.
Proprio i borghi di provincia, abitati da un pubblico culturalmente vergine ai fatti dell’arte contemporanea, si dimostravano propensi a stringere sinergie nuove fra artisti, amministrazioni ed enti locali al fine di realizzare eventi di incidenza pubblica, spesso entro un circolo virtuoso che favorisse il turismo periferico.
Il libro Avanguardia diffusa. Luoghi di sperimentazione artistica in Italia 1967-1970 di Alessandra Acocella, edito da Quodlibet per la collana della Fondazione Passaré, è precisamente un itinerario fra le principali tappe di una effervescente, ma ancora poco conosciuta, stagione creativa.
Individuando nella mostra Sculture nella città (Spoleto 1962, esposizione di scultura en plein air) l’antecedente significativo per l’arte urbana, il libro ricostruisce la storia degli eventi successivi, che se ne distaccano in virtù di un rapporto più coinvolgente col territorio e coi fruitori, fra poesia sperimentale, arte cinetica e programmata, architettura radicale, nuova musica.
Parole sui muri fu un evento dirompente: oltre cento autori internazionali occuparono letteralmente Fiumalbo con opere minimali, manifesti, happening, poesie e film inediti. Animati dal desiderio di diffondere, senza criterio alcuno, i nuovi linguaggi verbovisuali, essi seguirono soltanto l’intuizione e lo stimolo del momento con spirito ludico e collaborativo. Perno dell’evento fu la categoria estetica del manifesto, elemento caratteristico della realtà urbana da riformulare nelle sue accezioni comunicative ed espressive: si ricordano le opere di Parmiggiani, Adriano Spatola e Franco Vaccari, e gli icastici cartelli stradali di Ketty La Rocca. L’interazione fra i linguaggi poetico-visivi e quelli plastico-scultorei caratterizzarono l’evocativa mongolfiera di Kenelm Cox, un grande artefatto effimero, fatto di teli colorati e recante messaggi ecologici, librato nel cielo.
Mentre una seconda edizione di Fiumalbo veniva riproposta, ad Anfo si preparava Un paese + l’avanguardia artistica (1968), evento dalla discendenza fiumalbina sia per l’anarchia organizzativa sia perché Sarenco, suo ideatore, fu tra i protagonisti di Parole sui muri grazie a provocatorie dichiarazioni anticattoliche.
Diversamente da Fiumalbo, però, Anfo estendeva il campo d’azione degli artisti alle aree limitrofe al paese, compreso il Lago d’Idro, condizione che favorì lo sviluppo di opere gonfiabili galleggianti sull’acqua, oppure animate dall’interazione ludica degli stessi cittadini. “Domus” dedicò quella volta molto spazio al gonfiabile di Hidetoshi Nagasawa, artista giapponese che liberò la propria opera nel lago quale metafora del viaggio.
Grande protagonista, tuttavia, fu il Biscione da divertimento di Andrea Bersano, Maria Grazia Magliocca, Giorgio Nelva e Marco Parenti: con lo scopo di far divertire la gente, questo ironico e ambiguo tubo trasparente, contenente una sfera rossa, costò agli organizzatori della rassegna un processo per oscenità.
Il ’68, anno delle rivolte studentesche e della contestatissima Biennale di Venezia, rappresentò il momento clou dell’arte nello spazio pubblico. Nel contesto del IV Premio Masaccio furono invitati a San Giovanni in Valdarno i giovani rappresentanti dell’arte più avanzata, dall’architettura radicale fino alle tendenze cinetico-programmata, poverista, e ottico-percettiva. L’allestimento della sede espositiva, il duecentesco Palazzo d’Arnolfo, fu opera di Gianni Pettena, il quale chiuse loggia e porticato dell’edificio mediante una serie di pannelli in legno, disposti secondo un motivo zebrato simile a quello della segnaletica pedonale. Tale “intervento-segnale” ebbe il duplice risultato di ricavare nuovi spazi per la mostra e di conferire al venerando palazzo «una teatralità strana, che non permettesse nessun tipo di colloquio sommesso col linguaggio rinascimentale».
Le prevedibili polemiche suscitate da Pettena culminarono nell’indignazione per l’esilarante “happenvironment” del gruppo UFO, Chicken Circus Circulation: esso consistette in una sferzante e fantascientifica parodia delle tradizioni culinarie e religiose locali, condotta da alieni che, atterrati col proprio missile-astronave sulla torre del palazzo pretorio, favorirono uno scambio fra prodotti tipici venusiani e sangiovannesi, mentre i principali monumenti della città venivano rivestiti di carta stagnola e schiuma da barba.
La forte critica alla società capitalista e massificata di cui gli UFO, tramite complesse simbologie, si facevano portatori, non venne però compresa, e l’evento fu strumentalizzato dalla Democrazia Cristiana. Seguì allora un importante dibattito sul tema “arte e provocazione”, con presenza di Umberto Eco e Furio Colombo, che ebbe il merito di stimolare la riflessione estetologica al di fuori dai circuiti tradizionali dell’arte.
Nello stesso anno, il comitato della XIV Triennale di Milano andava organizzando Nuovo Paesaggio, ovvero «il contributo dell’arte contemporanea e l’esposizione territorialmente più diffusa» fra le manifestazioni previste fuori sede. Questo ambizioso progetto contava infatti ben 35 interventi ambientali in grande scala disseminati per l’intera penisola: un evento che, secondo i suoi organizzatori, avrebbe permesso alla Triennale di primeggiare sulla Biennale di Venezia (la quale non aveva ancora diffuso opere d’arte nello spazio urbano ed extraurbano), con un potenziale innovativo e una portata popolare tali da riscattare definitivamente l’Italia dalla sudditanza rispetto ai modelli culturali statunitensi.
Seppur giunto ad un avanzato stato di elaborazione, l’intento di riconfigurazione creativa dello spazio nazionale proprio di Nuovo Paesaggio non si realizzerà mai: la contestazione artistica scoppiata con l’inaugurazione della Triennale portò all’occupazione del Palazzo dell’Arte, quindi alla definitiva cancellazione di quest’utopia.
Nel 1969 si moltiplicarono, per gli artisti, le possibilità di operare nel paesaggio urbano e naturale. Due furono le importanti rassegne in località turistico-balneari: la prima, Al di là della pittura, VIII Biennale d’Arte Contemporanea di San Benedetto del Tronto, intendeva, come spiegò Gillo Dorfles, confrontare «i principi decisamente derivati dall’elemento tecnologico […] con quelli di un’arte decisamente nemica e contraria di questi principi», allo scopo di sollecitare una consapevolezza critica circa i limiti e le potenzialità insite nei rapporti tra uomo e natura, tra oggetto naturale e oggetto artificiale. La rassegna fu seguita da un importante dibattito pubblico (con intervento di Germano Celant), incentrato sulla fotografia come documentazione degli interventi all’aperto.
La seconda, Nuovi materiali nuove tecniche a Caorle, vide, fra le altre, opere di Bruno Contenotte, Gino Marotta, Gianni Colombo, Eugenio Carmi e Paolo Scheggi, interessanti perché poste in una relazione di continuità o superamento rispetto alle proposte degli stessi artisti per Nuovo Paesaggio, rimaste irrealizzate.
Meno 31. Rapporto estetico per il Duemila a Varese e Campo Urbano a Como spostarono invece l’asse d’azione delle pratiche artistiche pubbliche nei centri storici di due città accomunate dalla dissoluzione della vocazione culturale e comunitaria degli spazi, con il loro assoggettamento alle logiche del ciclo produzione-consumo a seguito del boom economico.
Entrambe le manifestazioni si articolarono lungo gli assi turistici cittadini (Corso Matteotti a Varese, rivestito di pannelli-didattici, e Via Vittorio Emanuele II a Como, oscurata alla vista da un tunnel a sezione triangolare di Ugo La Pietra), arterie di collegamento verso ulteriori luoghi espositivi, antiche piazze e chiostri di chiese, da rivitalizzare attraverso l’arte contemporanea. A Como, in particolare, l’incontro-scontro fra preesistenze architettoniche, happening e lavori sperimentali fu documentato dalle diverse sensibilità fotografiche di Ugo Mulas e Gianni Berengo Gardin.
Negli anni Settanta, la messa in questione dell’effettiva incidenza sociale delle manifestazioni sperimentali si rifletteva nel drastico mutamento del clima socio-politico italiano: la drammatica strage di Piazza Fontana a Milano segnò infatti l’inizio della cosiddetta “strategia della tensione”, e da quell’avvenimento lo spazio pubblico verrà percepito in modo cupo e contraddittorio.
Emblema del duro riesame critico che investe l’arte urbana è Interventi sulla città e sul paesaggio, iniziativa svoltasi a Zafferana Etnea nel 1970 tesa a promuovere un inedito confronto fra artisti e architetti. L’agitazione e il nervosismo che percorsero l’evento furono la spia del problematico contatto, a quella data, fra arte e società: gli accesi malumori della popolazione, anche in relazione al disertato Premio Brancati, diedero vita a una guerriglia urbana dal momento in cui Ugo La Pietra, Getulio Alviani e Maurizio Nannucci posero dieci copertoni di gomma, incendiati con la benzina, nella piazza principale del paese.
«Finalmente questo gesto fece precipitare gli eventi: una telefonata anonima informava il sindaco che era stata posta una bomba ad orologeria nella sede comunale, i congressisti si rifugiarono in albergo, la popolazione inferocita uscì dalle case e distrusse tutto ciò che gli artisti “decoratori” avevano posto nella città». L’utopia di una nuova città, auspicata da molti critici e artisti, era ben lontana dall’avverarsi — l’entusiastico triennio dell’arte pubblica si era concluso.
La capillare ricerca nelle fonti portata avanti da Alessandra Acocella per ridare vita a oggetti ed accadimenti estetici per lo più effimeri, ontologicamente destinati a consumarsi nella loro momentanea esistenza pubblica e collettiva, fa di questo libro un esempio di metodo per chiunque voglia approcciarsi all’arte di quel giro d’anni. La ricerca ha permesso l’emersione di ricche e inedite documentazioni che hanno conferito consistenza a linguaggi sperimentali fino ad ora solo immaginati o riportati dalla testimonianza orale. Il meraviglioso apparato di immagini chiarisce i nessi fra le opere, i luoghi in cui furono esposte o agite e la condivisione di esperienze estetiche da parte del pubblico; le stesse fotografie sono commentate tenendo conto dell’uso di quest’arte come parte integrante delle sperimentazioni visive.
Ogni opera saliente viene ricondotta al movimento o alla tendenza di appartenenza, all’evoluzione artistica dell’autore che l’ha prodotta, ai suoi precedenti significativi e persino ai testi critici ed estetologici che possono averne influenzato la genesi, col risultato di fornire al lettore le contestualizzazioni storico-artistiche utili alla comprensione di un ampio orizzonte di pratiche che altrimenti gli parrebbero del tutto svincolate dalle contingenze. Ulteriore merito del testo è quello di esporre i legami esistenti fra le varie iniziative artistiche, quindi fra le diverse personalità, istituzioni e territori che se ne sono resi i protagonisti, e che l’autrice ha ripercorso, fisicamente, tappa per tappa.
Avanguardia diffusa. Luoghi di sperimentazione artistica in Italia 1967-1970, di Alessandra Acocella, Quodlibet – Fondazione Passarè, 2016.
Immagine di copertina: Alestimento – opera di Gianni Pettena sulla facciata del Palazzo d’Arnolfo (Dialogo Pettena-Arnolfo), San Giovanni Valdarno, 1968. Courtesy Museo Casa Masaccio – Archivio Premio Masaccio, San Giovanni Valdarno.