Tre sorelle, La moglie (monologo originale di Cinzia Spanò), il ritorno della Casa di Bambola diretta da Andrée Ruth Shammah… nei giorni della Women’s March pure il palco si dichiara: teatro è (anche) donna
A Milano, nei giorni della Women’s March – e non solo – il teatro è femmina. L’arrivo delle Tre sorelle al Piccolo (con Cechov “rivisto” da Emiliano Bronzino), la Moglie di Cinzia Spanò monologante all’Elfo, il ritorno di Nora di Una casa di bambola al Parenti…
IL LUTTO SI ADDICE ALLE TRE SORELLE
Per capire le Tre sorelle di Emiliano Bronzino, in scena al Piccolo Teatro Studio Melato fino al 19 marzo, bisogna forse partire dalla fine. Partire cioè dalla scenografia di Francesco Fassone, bianca e desolata come una coltre che culla e imprigiona, dalla scena ora quasi vuota perché i soldati se ne sono andati, e dalle voci di Olga e del dottore che, ognuna nella propria solitudine, ripetono un mantra: una spera, e ripete per sperare più intensamente, che un giorno capiremo (tutto, qualcosa), l’altra pare un tic e asserisce che tanto, è lo stesso (perché tanto, forse, non esistiamo, forse è tutta un’illusione, oppure no, ma insomma, è lo stesso).
Due modi di non essere nel presente. E intorno a questo non essere gira tutta l’interpretazione del testo di Anton Čechov proposta dal regista.
Al centro del discorso c’è sempre la vita – eppure non è mai in scena, le cose importanti accadono altrove e altrove è la Vita rispetto all’esistere dei personaggi, sia nel tempo che nello spazio.
Si rimpiange un passato senza sostanza, che pare di sogno, e si attende un futuro già rarefatto, che non arriverà mai o scivolerà accanto.
Le tre sorelle si lasciano imprigionare dalla vita e dal tempo che scorre lentissimo e intanto chiude possibilità, soffoca speranze.
L’altrove geografico, Mosca, è una chimera idealizzata e lontana, di per se stessa irraggiungibile, certo non più concreta del tempo.
Eppure basterebbe così poco, basterebbe andare. Così l’impressione è quella dei borghesi dell’Angelo sterminatore di Buňuel, che davvero non possono uscire dalla casa – per la semplice e tautologica ragione che non lo fanno.
A furia di guardare avanti, indietro, o in lontananza, il qui e l’ora diventano invisibili, forse muoiono, vengono fagocitati dall’eternità in cui in effetti è tutto uguale e nulla serve sperare che capiremo, se non capiamo adesso – perché il futuro della comprensione, della felicità e della vita resterà sempre chimera, mai potrà trasformarsi in presente, al massimo in passato. Qui si vede solo lo scorrere del giorno che riflette come un prima le anime dei personaggi la cui interiorità, a volte quasi resa caricaturale, in realtà si disperde.
Čechov ribadisce la sua attualità estrema ogni volta che viene messo in scena, proprio perché con i suoi infiniti piani interpretativi si colloca sempre oltre al tempo e mai nel contingente. Bronzino riesce a coglierne anche l’ironia profonda e a trasferirla agli attori – ed è forse l’ironia una delle chiavi di quest’attualità di Čechov, uno dei canali attraverso cui passa la sua intensità. Si ride spesso durante lo spettacolo, forse si va via portandosi dietro un velo di tristezza verso la vita.
C.O.
Tre sorelle, al Piccolo Teatro fino al 19 marzo
IL DIRITTO DI CONTARE DELLA SIGNORA FERMI
Odia i numeri. Per lei sono sempre uguali, «dietro un numero c’è sempre un numero».
Preferisce le parole, che ti permettono di navigare al largo dei sentimenti – o, meglio ancora, di un gusto estetico fine a se stesso, come quello di pronunciare sostantivi con la erre. Perché è bello così.
Chi è la donna che parla in scena – circondata di sedie coperte da teli di plastica e un modesto, dolcissimo vestito color tortora – non lo capiamo subito.
Poco a poco, però, il riconoscimento: è la moglie di un fisico. Un nerd, si chiamerebbe oggi, che la tiene un po’ sulle spine nella Roma fascista, uno studente che tutti chiamano «genio» e che ha davanti a sé un futuro di strabiliante levatura. Almeno sulla carta.
Cinzia Spanò è La moglie di Enrico Fermi, al secolo Laura Capon (1907-1977), colei che – a causa delle leggi razziali – fu la causa del trasferimento all’estero del premio Nobel.
Spanò, autrice del monologo che la vede protagonista (diretto con garbo da Rosario Tedesco), si concentra su una parte estremamente affascinante nella biografia della signora: quella in cui, a fianco del marito, si reca nei laboratori di Los Alamos, nel New Mexico, dove si prepara la bomba atomica con il supporto di scienziati come Oppenheimer, Lawrence… e Fermi.
C’è un solo problema: accerchiata dalle nubi del deserto, Laura-Spanò non sa nulla – se non che il marito, e insieme a lui i mariti di tutte le altre donne di Los Alamos, le mogli degli scienziati, nascondono un segreto.
Trophy wife tra le trophy wives di una prigione che abbrutisce e isola, la Moglie scopre che ogni sera il marito può essere un mostro, che torna in casa senza mostrarsi realmente per ciò che è. Senza rivelare nulla delle cose che nasconde. Un’analogia, nella donna, sorge spontanea: è quella del mito di Apollo e Psiche, che accompagna lo svolgimento del monologo – invero un po’ troppo lungo, soprattutto nella seconda parte – quale (contro)canto simbolico alle nevrosi, ai silenzi e ai dolori della moglie del deserto. Che piange inascoltata la rabbia di un uomo che, per il bene dell’esperimento, la esclude, la silenzia, la annichilisce moralmente.
Lo spettacolo della sempre eccellente Spanò, che ha un viso buffo e al contempo molto intenso, come fosse una equilibrata via di mezzo tra Geneviève Bujold e Tina Pica, è interessante nella creazione di un’atmosfera claustrofobica, angosciante, che odora d’incognita – sentimentale e matematica.
La Spanò, assoluta proprietaria della scena, si riconferma come una delle interpreti più dotate, versatili e interessanti della scena italiana di oggi. Memorabile nella recente Eclisse di Frongia, ancora all’Elfo, racconta la moglie di Fermi nei giorni in cui si celebra la Giornata della donna: contro ogni pietismo, anche il teatro sceglie di raccontare quello che con orrore viene ancora definito il “sesso debole”. E lo fa in maniera libera, selvaggia e immaginifica.
Ci pensa la Marina Rocco che ritorna con Una casa di bambola, diretta da Andrée Ruth Shammah ancora una volta alle prese con la re-invenzione del capolavoro di Ibsen, uno spettacolo cupo, volutamente imperfetto, che la regista non ama condensare dentro un’unica edizione: le sfaccettature di Nora rivivono, sera dopo sera, con un respiro sempre diverso, sempre febbrile e mai prevedibile.
E ci pensa Čechov , che rientra a Milano con le Tre Sorelle di Emiliano Bronzino, in cui le protagoniste vengono sommerse da un oceano bilioso di decadenza, sarcasmo e disincanto.
E non sono che due esempi. Insieme alla Moglie, però, sono rappresentativi di una tendenza crescente: il teatro può ancora raccontare il sesso e le femmine seguendo forme tradizionali (il monologo, il grande classico, etc.) e giocando a pasticciarle di spregiudicatezza. In fondo è per questo che è divertente.
G.P.R.
La moglie, al Teatro dell’Elfo fino al 12 marzo