Bonobo riempie il Fabrique con un pubblico internazionale; a sentirlo ci sono ragazzi francesi, inglesi, tedeschi, accorsi a Milano forse per colpa dei sold-out negli altri paesi
Marzo è il mese del disgelo e delle grandi migrazioni di volatili da una parte all’altra del globo: Migration, uscito il 13 gennaio di quest’anno che segue l’ultima uscita targata 2013 a nome The North Borders, è proprio il titolo dell’ultimo album di Bonobo, artista britannico classe 1979.
Senza neanche farlo apposta, esattamente due mesi dopo, mi ritrovo fuori dal Fabrique con una sigaretta e un biglietto giallo in mano; la coda è infinita. Dopo circa 40 minuti riusciamo ad entrare: la sala è affollatissima e i baristi continuano a muoversi convulsamente dietro al bancone. Mentre cerco di spostare la massa informe di persone che ho davanti per raggiungere una posizione accettabile parte Migration, prima traccia omonima del nuovo lavoro di Bonobo.
Le luci sono meravigliose, ricordano il volo degli storni nei pomeriggi d’estate e le ombre che si stagliano dallo sfondo sembrano quelle del Teatro d’Ombre cinese. Il verde acqua predomina, acqua e aria convivono. L’impianto è decisamente scadente: non sento gli array di fianco a me e i bassi sono definitivamente troppo alti. La situazione non migliora con Break Apart in cui la vellutatissima voce della cantante avvolta in un mutevole vestito rosso, viene completamente coperta dal basso elettrico: distinguo appena il ciclico “You’re my favurite”. I subwoofers risuonano pesantemente dentro il mio sterno e non riesco a non chiudere gli occhi ed iniziare a ciondolare. Riapro le palpebre e i cinque pannelli posizionati dietro i cinque strumentisti prima sorvolano una valle desertica dove, come nel video, a mezz’aria si distinguono fumi colorati o lucine-guida dello spettatore e successivamente si fanno strada tra reperti archeologici simili a quelli di Lopburi, psichedelicamente sovrapposti e intrecciati tra di loro: di sottofondo ascolto Kerala e Bambro Koyo Ganda.
Tastierista e chitarrista si guardano ed iniziano a muoversi a ritmo di Second Sun da cui, però, trapela ancora a tratti il tema di Migration. Anche l’atmosfera inizia a scaldarsi: non c’è più nessuno che si lamenta o che cerca di incanalarsi tra la gente. Decido di abbandonarmi completamente all’ascolto, riconosco, dopo qualche decina di minuti, solo Cirrus, il più famoso brano di Bonobo.
Ciò che bisogna fare quando si ascolta della musica ed in particolar modo quella elettronica ed (in parte) quella jazz è, appunto, abbandonarsi completamente, viaggiare, vedere quello che si vuole vedere attraverso i suoni guida dell’artista.
Bonobo vuole renderci nomadi che cercano gli angoli della tranquillità: ci riesce, in particolare in questo suo nuovo progetto, tramite la sua raffinata capacità di miscelare e contaminare suoni che richiamano luoghi incontaminati e strumenti etnici perduti. Mi immergo a tal punto nel suo flow che mi sento svenire. Nella mia testa, dall’orecchio destro risuonano i bassi di Bonobo, da quello sinistro Gabri Ponte sparato a tutto volume dal trash locale di fronte.
Fotografie di Alessandra Lanza