Vendetta riuscita ma Oscar mancato: l’enigma di Isabelle Huppert, dal torbido passato

In Cinema

L’olandese Paul Verhoeven torna in Europa per dirigere “Elle”, un thriller dai tempi perfetti e ricco di ambigui e perturbanti sottintesi, sul tema della violenza nelle relazioni e nella vita contemporanea. L’attrice francese ha sfiorato stavolta la sua prima statuetta, arrivando alla cinquina per la miglior interpretazione, grazie al ruolo di una “dark lady” dura, decisa e piena di ammiratori, che dirige con polso una società di videogiochi e vive sola in una grande casa: l’inquietante compagnia di un gatto non la difenderà dall’irruzione di un uomo violento e mascherato, da cui nasce tutta l’azione del film

Michelle (Isabelle Huppert), protagonista di Elle dell’olandese Paul Verhoeven (regista di Showgirls e Robocop), vive tutta sola in una grande casa silenziosa, in compagnia di un gatto enigmatico e discreto. Il suo isolamento è però soltanto apparente, poiché la sua vita è fin troppo ingombra di persone: un ex marito non più amato (Charles Berling) e una vecchia madre forse mai amata (Judith Magre), un figlio imbelle e disprezzato per la sua debole presa sul mondo (Jonas Bloquet) e un amante ultracinquantenne fin troppo passionale (Christian Berkel), e proprio per questo tenuto a debita distanza, oltre all’indispensabile amica e socia Anna (Anne Consigny), di lui consorte. Per non parlare della schiera di giovanotti e giovanotte che lavorano per la sua società di videogiochi, un’impresa di successo che lei dirige con pugno di ferro e notevole riscontro economico.

Un mondo ricco e borghese, dunque, un universo perfettamente ordinato in cui la violenza sembra esistere solo nella forma esorcizzata (dunque depotenziata) delle immagini brutali ma di pura finzione dei videogiochi. Fin dall’inizio del film, però, la violenza, quella vera, irrompe sullo schermo e nella vita della signora, violentata in casa sua da uno sconosciuto imperturbabile e mascherato. Una scena shoccante, che arrivando subito dopo i titoli di testa coglie di sorpresa lo spettatore, lasciandolo del tutto spiazzato: sia per l’esplodere della violenza, sia dalla reazione della protagonista, che raccoglie imperturbabile (anche lei, proprio come il violentatore) i cocchi di vetro finiti per terra, si fa un bagno, si cambia d’abito e tira dritto quasi come se niente fosse.

Come se, è meglio sottolinearlo subito, perché si tratta di un dettaglio decisivo. Michelle non rimane affatto indifferente alla violenza che ha subito, però non reagisce come ci si potrebbe aspettare. Non piange, non grida, non chiede aiuto, non lo dice a nessuno (almeno inizialmente). E non chiama la polizia: una scelta che al momento appare incomprensibile, ma ben presto scopriremo un atroce baratro d’orrore nel suo passato (un passato lontano ma ancora vivo e vegeto, con le sembianze di suo padre, chiuso in prigione), per cui tale decisione ci apparirà in una luce del tutto diversa.

Sì, perché Michelle non chiede aiuto solo perché ritiene di non averne bisogno per raggiungere il suo scopo: trovare e punire l’uomo che l’ha violentata. Aggiungendo un tassello alla volta, come in un puzzle di quelli difficili ma appassionanti, il ritratto di questa donna si precisa, si fa più nitido e coinvolgente, persino commovente, ma non per questo meno perturbante. E alla fine, se si dovesse usare un unico aggettivo per definire questo film, bisognerebbe proprio scegliere: spiazzante.

Prendendo spunto dal romanzo Oh… di Philippe Djian (l’autore di 37°2 le matin, da cui Jean-Jacques Beineix trent’anni fa trasse il celebre Betty Blue con Beatrice Dalle), pubblicato in Italia da Voland nella traduzione di Daniele Petruccioli), Verhoeven torna in Europa per girare un film coraggioso e politicamente scorretto che nessuna attrice americana avrebbe mai accettato di girare. Un’esplorazione dolorosa dei meandri della mente umana, delle geografie perverse delle relazioni amorose, degli infiniti chiaroscuri che segnano il percorso accidentato di una vita, dei crinali e dei baratri di cui è fatta l’esistenza di tutti noi.  Una sceneggiatura (di David Birke) mirabilmente nitida e profonda, precisa fino alla crudeltà e però a tratti capace di inusitata leggerezza, e di regalare allo spettatore momenti di magnifica commedia nera. Per il regista che molti (troppi?) ricordano solo per il planetario successo di Basic Instinct, che invece trova qui una storia perfetta per le sue corde. E non sbaglia una scena

Ma tutto questo non basterebbe senza lei, Isabelle Huppert. Ottima attrice, semplicemente perfetta per ruoli di questo genere, in Elle trova uno dei personaggi più incisivi di tutta la sua carriera, a cui aderisce in modo totale, con un fervore assoluto, tuffandosi nel vuoto come un’acrobata talmente sicura dei propri mezzi da non aver bisogno di preoccuparsi di reti di sicurezza. Un magnetismo sempre contraddistinto da un tocco freddo, una distanza inquieta, un enigma muto e irresistibile, capace ancora una volta di incantare e raccogliere applausi e premi, dal festival di Cannes ai Golden Globe, dai francesi César alla nomination all’Oscar. Dove l’ha battuta solo una Natalie Portman in versione Jacqueline Kennedy.

Elle, di Paul Verhoeven, con Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling, Virginie Efira, Judith Magre, Jonas Bloquet, Christian Berkel

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