Jon Fosse, drammaturgo e scrittore norvegese, crea un teatro di luoghi, di parole non dette o reiterate allo sfinimento: Sogno d’autunno è uno dei suoi testi più noti, portato in scena da Valerio Binasco e un cast d’attori che vede Milvia Marigliano rubare la scena…
Jon Fosse (foto in basso, di Helge Hansen), classe 1959, è il nuovo Ibsen. Ok, è una provocazione – nemmeno troppo raffinata -, ma dopo il maestro di Casa di bambola questo signore dall’espressione un po’ guascona, un po’ mefistofelica è uno degli autori più rappresentati e amati dal pubblico europeo. Tra le sue opere più riconosciute c’è Il nome, del 1994, dove implodono i temi ricorrenti della poetica dello scrittore: la famiglia, l’incomunicabilità, una vaga sospensione temporale che inchiodano una giovane partoriente a un futuro impossibile da decifrare.
Su questa rotta, seppur con “forme” differenti, si muovono anche altre opere di Fosse, come Inverno (portato in scena da Walter Malosti con Michela Cescon) o Qualcuno arriverà, storia di spettri e case abbandonate.
Il suo è un teatro di relazioni e di luoghi, dove l’elemento surreale raggiunge picchi interessanti e spesso autoironici, alle prese con una sottile battaglia in sui un Sesso prova sempre a dire la sua sull’altro e, allo stesso tempo, a occupare uno spazio vitale preciso, ben delimitato. Quello di una casa abbandonata, di un cimitero, di una cucina.
È quello che succede anche in Sogno d’autunno (Draum om Hausten), dramma del 1998 che arriva al Teatro Franco Parenti per la regia del prolifico Valerio Binasco: un Uomo e una Donna, in balìa di un passato esistito o forse solo immaginato, in un gioco di proiezioni che si lancia nel futuro per poi virare indietro, si ritrovano tra le panchine di un cimitero. Si amano, si cercano, si desiderano: a fasce alterne, circondati da sedie-lapide che Binasco illumina con una certa suggestione, soffocati da dialoghi che qualcuno definirebbe nonsense: la Lei potrebbe essere la Morte, la rinascita, la speranza, il femminino o altri sacri crismi, Lui la resistenza alla morte, il maschilismo becero (forse), la passività e la sfrontatezza.
Lei è sola e devastante, lui ha una moglie e un figlio, e due genitori che non va mai a trovare. Hanno i volti di Giovanna Mezzogiorno e Michele di Mauro, che funzionano bene ma che in certi passaggi rallentano davanti alle stregonerie della “palestra” Jon Fosse, le cui parole vorticano come un’altalena dirompente verso il nulla e la lacerazione, ora ironiche, ora drammatiche, seppur inquadrate nella medesima derivazione semantica. Non a caso colei che meglio riesce a incarnare questa “vocazione” è Milvia Marigliano, che ruba la scena a tutti nei panni della madre: le lamentele reiterate, le risatine, il narcisismo ingombrante si impongono titanici tra le insenature del personaggio più affascinante, crudele e ambiguo dell’intera opera.
È lei la donna che il protagonista odia più di ogni altra cosa, l’unica verso cui provi un sentimento tangibile: l’ex moglie (Teresa Saponangelo) viene disprezzata, la donna del momento (Mezzogiorno) è colei verso cui tendere, in un’atmosfera di magica incertezza che può portarlo all’estasi o alla distruzione. Ma è la madre, affiancata da un uomo-padre ombroso e anch’egli gloriosamente “stampo Fosse” (Nicola Pannelli), colei verso la quale ogni sospensione si mette da parte per lasciar spazio alla rabbia, quella vera, all’unico momento autentico e terrestre voluto dal protagonista. È su di lei che il lavoro di Binasco trova le sue intuizioni più convincenti, i suoi momenti più ispirati: la Marigliano è perfetta interprete delle ossessività ricorrenti di Fosse, una voce perfetta per quelle grida ora disperate, ora beffarde che in Fosse si possono ritrovare nelle geometrie di uno spazio all’apparenza rassicurante, ma in realtà profondamente in agguato.
Sogno d’autunno, al Teatro Franco Parenti fino al 2 aprile