Riflessioni semiserie di un vinildipendente arresosi temporaneamente ai vantaggi (e ai limiti) della musica in Rete
I dati parlano chiaro: siamo in 50 milioni nel mondo. Una nazione di abbonati a Spotify, il servizio svedese di streaming musicale che permette di sentire oltre 30 milioni di canzoni con un abbonamento da 10 euro al mese.
50 milioni sono tanti, e se si aggiungono altrettanti utenti che preferiscono non pagare e beccarsi pure la pubblicità, allora la visione è chiara: in un periodo storico dove tutto si estremizza, anche l’ascolto della musica è estremo, compulsivo e molto, molto parcellizzato.
Sì, perché ascoltare musica su Spotify può essere un’esperienza straordinaria, ma anche molto molto limitante. Io per esempio, cresciuto a vinili e cd, non ce la faccio proprio ad ascoltare per intero un album di un artista in streaming. Mi prudono le mani neanche fossi Clint Eastwood in un vecchio western di Sergio Leone: DEVO andare avanti nella canzoni e sentire quella dopo per “capire com’è” e poi passare ad altro.
Beh, in fondo niente di nuovo. Il telecomando fa parte della nostra vita dagli anni ottanta, e la navigazione sul web è esattamente così, a salti da link a link. La differenza sta nel fatto che la musica sarebbe anche una forma d’arte e non solo prodotto di consumo….e invece quello che sentiamo è spesso quello che consumiamo o che il mercato ci propone.
Spotify (e ovviamente tutte le altre piattaforme di streaming) ti offre così tanta musica che se non salti da un cantante all’altro ti senti quasi in colpa. E in più navigare seguendo i consigli che ti arrivano dagli algoritmi è davvero divertente: se hai tempo a disposizione e curiosità per il nuovo (e l’ignoto) musicale puoi scoprire mondi lontanissimi stando “comodamente seduto in poltrona”, come recitano le peggiori pubblicità.
Navighi, salti, passi da un’orchestra tibetana alle esplorazioni sonore islandesi senza soluzione di continuità e poi….ti fai una bella playlist. Che raramente ascolterai perché nel frattempo il “temibile algoritmo” (che ormai mi conosce meglio di mia moglie) mi ha già proposto un daily mix con i miei pezzi preferiti e una discover weekly con “musica sempre nuova e chicche selezionate solo per te”!
Per un amante della musica è come essere costretti a vivere in una luna park perenne, da cui non riesci più ad uscire. E tutto, anche le cose più belle e importanti – non importa se vecchie o nuove – perdono di valore e di peso, perché tutto è sempre disponibile e sempre pronto. Troppo pronto.
Certo che mi piace avere sempre in cuffia la mia musica preferita, ma a me manca il rapporto fisico con una cosa che amo così tanto: il profumo del vinile nuovo appena comprato, il viaggio a casa in metropolitana leggendo tutti i crediti e i testi prima del primo, emozionato ascolto. Il fatto che i dischi costavano ed erano delicati da armeggiare (il vinile si rovina se non lo so sai trattare, giù le dita dalla superficie!) li facevano diventare unici ospiti per settimane o mesi del nostro giradischi. E quindi si imparavano a memoria interi LP dei nostri amati artisti…..all’epoca mi lamentavo se un vinile fra lato a e lato B duravano solo trenta minuti. Adesso si ascolta una canzone intera (quattro minuti max) a fatica.
Non è colpa di Spotify, anzi. È la tecnologia che avanza e ci sopravanza, e non la si può fermare. C’è però una domanda che prima o poi dovrà avere una risposta: quanto può durare il modello di business di Spotify? Una volta David Byrne disse che con i soldi arrivati da Spotify in un anno riusciva a malapena ad uscire a cena una sera con sua moglie. Perché?
Semplice: Spotify paga 0, 6 centesimi di euro ad ascolto se arriva da premium (il servizio a pagamento) e 0,1 ad ascolto se arriva dal servizio free. E questo vale per gli artisti di peso, per i giovani il guadagno è ancora più basso. Pochi soldi quindi, e tanti artisti che sono poco soddisfatti e non lasciano la loro musica a disposizione.
Si potrà tornare indietro? No, la tecnologia è irreversibile. Si potrà forse trovare un modo diverso di usare lo streaming, un modo dove io non pago 10 euro per avere 30 milioni di canzoni (ne ascolterò nella vita molte meno…), ma 10 euro per la musica che amo e che desidero ascoltare. E senza affamare gli artisti che la producono.
Nel frattempo il vinile torna ad essere fonte di reddito per gli artisti e fonte di goduria per chi lo compra e lo ascolta, annusando le copertine… la tecnologia è irreversibile, ma a volte è bello illudersi.