Il cantautore pisano si racconterà cantando sabato all’Alcatraz di Milano nell’ultima data del suo fortunato tour
È passato un anno dall’uscita del primo album da solista di Francesco Motta e nel frattempo ci sono state date e date di tour, una dietro l’altra, in cui quelle canzoni sono diventate sempre più sue – e anche nostre. Sul palco, lui che ci ha passato anni, prima con i Criminal Jokers e poi a supporto di artisti come gli Zen Circus, Pan del Diavolo, Nada, non si è mai divertito così tanto, e adesso che sta per finire il tour (sabato 1 aprile sarà all’Alcatraz di Milano) riesco solo a immaginare le dimensioni dell’horror vacui che potrebbe invaderlo.
O forse no: quando l’ho intervistato per telefono il cantautore livornese era negli studi di registrazione di Roma, a Formello, già impegnato a scrivere canzoni nuove insieme a Riccardo Sinigallia, produttore di questo piccolo capolavoro (La fine dei vent’anni) e ora grande amico. E, forse, finite le date ci sarà anche del tempo in più da dedicare alla propria famiglia, cui Francesco è molto legato. Nel suo ultimo video, a recitare insieme a lui, c’è proprio suo padre.
Sabato prossimo, dunque, Motta chiuderà il primo capitolo di quest’avventura da solista, con cui ha vinto anche una Targa Tenco: all’Alcatraz suonerà accanto al suo vecchio gruppo, ad Andrea Appino, Nada, Giorgio Canali, in una sorta di ritorno alle origini, con cui chiudere il cerchio. A guardarsi indietro, il primo sentimento è la felicità di aver speso così tanto tempo per scrivere quelle canzoni, cinque anni.
Le cose sono andate come immaginavi?
Sono andate meglio. C’è da dire che Riccardo Sinigallia ha fatto sì che le canzoni arrivassero a più persone possibile. Il fatto che poi sia successo effettivamente con un disco del genere è abbastanza un miracolo.
Cos’è che non ti saresti mai aspettato, in tutto quello che è successo quest’anno?
Mmm, non diciamo “mai”. La cosa difficile di questo disco è che richiede una certa pazienza nell’essere ascoltato. Di essere digerito. Il fatto che abbia messo d’accordo persone più giovani di me, persone più grandi, giornalisti e tutti, è abbastanza un miracolo.
Riccardo Sinigallia è stato importantissimo in fase di scrittura. È venuto a vederti in tour? Cosa ti ha detto?
Mi ha dato consigli all’inizio del tour su cose che andavano migliorate: non ci stanchiamo mai di trovare cose in cui si può migliorare. Lui non si è stancato ancora di dirmele e soprattutto ci vediamo ogni giorno, per cui insomma, si parla spesso di tutto. Ultimamente abbiamo sistemato ancora altre cose e siamo molto contenti.
Quando eri in tour con gli Zen Circus vi lanciavate dei petardi persino nel furgone. Questo tour cos’ha avuto di diverso, rispetto agli altri che hai fatto?
Che ovviamente portavo in giro delle canzoni in cui credo talmente tanto che mi portavano a farlo con una sicurezza che non c’è mai stata le altre volte. Poi ho fatto tour in veste di turnista, ma questa è un’altra cosa.
Quei tour di turnista cosa ti hanno dato? Come hai vissuto l’aver suonato per altri per molto tempo?
È stato bellissimo: ognuno in un modo completamente diverso. Io e Giovanni Truppi ci siamo insegnati delle cose, lo stesso con Nada, gli Zen Circus, i Pan del Diavolo. In generale mi hanno fatto capire che la cosa più importante per me è scrivere le canzoni e poi mi hanno fatto capire la pericolosità della musica, nel rispettare o non rispettare le canzoni e i testi scritti da altri. Mi ha fatto capire che devo fare la stessa attenzione con le mie canzoni.
Sei in giro da un anno. Senti la stanchezza o hai ancora energie da spendere?
Ora siamo sempre più sicuri di quello che facciamo, quindi ci divertiamo anche tanto a suonare. C’è tanta musica, i musicisti sono fortissimi, quindi è una cosa bellissima andare in giro. Sicuramente fin dal giorno dopo la festa finale all’Alcatraz io sarò contento di ricominciare a scrivere le canzoni nuove.
La prima volta che ti ho visto live è stato a Legnano, lo scorso inverno. Mi è piaciuto molto che salutassi i musicisti con te sul palco come se fosse la tua “famiglia”. La fine del tour, visto questo rapporto, ti spaventa?
Beh, un po’ sì. Ma ci siamo detti che troveremo un modo per continuare a lavorare, come tutte le famiglie che si rispettino c’è anche bisogno per un attimo di ritrovarci. Continueremo a lavorare insieme per il prossimo disco, sicuramente, quindi non si libereranno facilmente di me!
So che alla tua vera famiglia sei molto legato: si capisce dai tuoi testi e sei il primo a dichiararlo nelle interviste. Come stai vivendo la distanza in questo periodo? Te lo chiedo anche se da qualche anno vivi a Roma (Motta è nato a Pisa e ha vissuto per anni a Livorno ndr).
Sì, io abito lontano da casa da tanto tempo. So che loro sono molto contenti di cosa sto facendo e di come sono arrivato a farlo, soprattutto. Perché un conto è essere contenti adesso. Ma loro mi hanno sempre supportato, anche quando non era successo quello che è successo quest’anno. Mi mancano mia sorella, mio nipote, però cerco di vederli il più possibile. Dico solo sorella e nipote perché per caso questa mattina ero con i miei, però siamo molto molto legati.
Tua sorella suonava con te nei Criminal Jokers. Potrebbe finire con te sul palco prossimamente?
Non in questo periodo: lei è musicoterapista. Un mestiere molto diverso da quello del musicista. Ma sicuramente sarei contentissimo di fare qualcosa insieme a lei. Prova a parlarci tu! (ride)
Ti hanno fatto tantissime interviste e il titolo La fine dei vent’anni si presta a parecchie domande anche scontate. Quali ti hanno fatto più spesso i giornalisti?
Tutte. Veramente tutte.
Ce n’è qualcuna che è stata un tormento?
Beh, insomma, me le sono cercate anche un po’. Il titolo La fine dei vent’anni ha chiamato domande tipo: “Come ti senti ora?”, “Cos’è finito?”, “Cos’è cambiato?”. Io cerco di far capire che non è finito proprio un bel niente. A volte però è difficile da spiegare.
Ogni volta la risposta è la stessa?
Dipende dall’interlocutore.
Oggi, a me, come rispondi se ti chiedo “È stata così netta questa fine dei vent’anni?”
No, assolutamente no. È stato netto il cambiamento quest’anno, ma non rispetto a quello che ho sempre fatto io. Rispetto a quello che hanno percepito le persone riguardo a quello che faccio io, perché nonostante siano cambiate tante cose e io sia riuscito a essere più incisivo nelle canzoni, è stata netta la differenza nella percezione degli altri del mio lavoro, che ho sempre preso seriamente da dieci anni a questa parte.
È stata una coincidenza il riferimento alla fine dei vent’anni rispetto al tuo ultino compleanno?
Beh, insomma, ci ho messo cinque anni a scrivere questo disco! Quindi alla fine ce ne avevo trenta e non lo potevo chiamare in altri modi.
Ci sono delle cose di cui non parleresti mai nelle tue canzoni?
No. Per ora no.
Perché hai deciso di fare questo mestiere? Da bambino cosa avresti voluto fare?
Da bambino non me lo ricordo, ma ho sempre voluto fare questo mestiere da quando ho iniziato a capire che potevo fare un mestiere.
Nei tuoi testi parli spessissimo di “testa” e di “faccia”. È una cosa consapevole?
Sono rimandi a cose fisiche che mi servivano nelle canzoni. Dipende dalle canzoni. Forse è anche un caso.
Si parla anche di guerra. Questo senso del combattere e del lottare da dove arriva?
Deriva da questo periodo della vita in cui queste cose si fanno per la prima volta. E poi sinceramente non penso che poi smettano negli anni. Cambia la gente con cui combattere, cambiano le battaglie vinte e quelle perse, ma ovviamente a vent’anni sono battaglie più inventate, mentre dopo si fanno abbastanza vere. Genuinamente inventate, ed è bellissimo. Ma dopo diventa un casino.
Progetti futuri?
Ti dico che ti devo lasciare perché sono in studio: stiamo lavorando al disco di Riccardo Sinigaglia e poi dovremo lavorare al mio, quindi abbiamo veramente ancora tantissime cose da fare!
Francesco Motta in concerto La fine dei vent’anni Alcatraz (sabato 1 aprile)
Immagine di copertina di Caudia Pajewski