L’impronta personalissima e disinvolta delle esecuzioni mozartiane del pianista turco Fazil Say è coerente con la libertà che caratterizzava lo stile del “grande salisburghese”
Fazil Say è un musicista che più di altri divide la critica. Pianista dalla tecnica raffinata, da più di 25 anni fa discutere per un approccio alle partiture personalissimo che lo porta ad essere amato ma più spesso criticato aspramente. Il concerto a laVerdi della scorsa settimana – in programma l’Ouverture de Le nozze di Figaro, due concerti di Mozart (K 414 e K 488) e la sua composizione Silk Road – non ha modificato questo scenario.
L’Ouverture mozartiana, suonata in “autogestione” dall’Orchestra Verdi secondo le più tradizionali modalità esecutive del periodo classico, viene subito messa in contrapposizione all’interpretazione del pianista turco del K 414. L’orchestra attacca il concerto autonomamente, come se anche questa volta a dirigere fosse il primo violino e non Say (qui in veste di solista e direttore). Il dubbio che sia effettivamente così mi rimane per tutta l’esecuzione soprattutto considerando i contrasti estremi tra l’orchestra e il solista: da una parte di nuovo un suono tipicamente classico, dall’altro eccessi quasi novecenteschi, da una parte cura del microfraseggio, dall’altro accenti gratuiti quasi alla Prokofiev.
Dubbio fugato nell’intervallo: “la concertazione è di Say” mi dice un orchestrale nel foyer del teatro. C’è allora da pensare che questa accesa contrapposizione sia voluta. E’ chiaro che al pianista-compositore turco non interessi una lettura filologica e nemmeno un approfondimento di tutte le indicazioni segnate in partitura. Siamo lontani anni luce dall’equilibrio sublime di un Perahia, per fare un esempio.
Say invece sembra incarnare uno spirito di libertà a cui tutto può essere concesso e la giacca che indossa durante questa prima parte appare come la camicia di forza di una “tradizione” nella quale ci si sente terribilmente stretti. In altri termini si può parlare di una radicalizzazione di quanto Rudolf Buchbinder in una recente intervista rilasciata ad Axel Brüggemann afferma a proposito dei concerti di Mozart: “Sappiamo dai resoconti dei contemporanei che lui (Mozart ndr) si permetteva notevoli libertà quando suonava i suoi concerti e che non li considerava come scolpiti nella roccia. Penso che sia importante che noi continuiamo ad approcciare la sua musica con questo stesso spirito di giocosità”. Embematico a proposito il secondo ritornello del terzo movimento in cui Say non riesce a trattenere il piede destro che tiene il tempo su due accenti melodici, strappando più di un sorriso anche tra gli orchestrali.
E che si tratti di scelte musicali e non di imperizia lo conferma l’inizio del secondo movimento del K 488. Stalin si commuoveva su queste note suonate dalla pianista Maria Yudina e probabilmente avrebbe pianto quando Say riesce a trasportare l’ascoltatore in un altro mondo, con un suono dolcissimo mitigato dal pedale dell’una corda. Ma l’elemento più interessante di questa interpretazione è la disposizione degli orchestrali. Say decide di far suonare la sezione fiati (un flauto, due clarinetti, due fagotti e due corni) in piedi. Se la soluzione può sembrare bizzarra inizialmente, si rivela azzeccata nel corso dell’esecuzione. Viene fuori il carattere quasi da doppio concerto del K 488 nel quale la sezione fiati è un vero e proprio “secondo strumento solista” capace di fare da interlocutore al pianoforte soprattutto nel secondo e terzo movimento.
In questa intuizione si vede l’occhio del pianista che è anche compositore. L’impressione complessiva rimane comunque quello di una lettura del genio salisburghese troppo parziale, in cui il solo carattere gioioso non rende sufficiente merito a capolavori dalle potenzialità straordinarie.
Altro discorso richiede invece Silk Road. La scrittura di Say si inserisce nel filone della musica neotonale e riesce a mixare in modo virtuoso le ricerche strumentali portate avanti a partire dagli anni ’70 con le armonie popolari di terre lontane. Questo concerto per pianoforte e orchestra da camera, composta da Say nel 1994, è un percorso all’interno dei luoghi e delle tradizioni attraversate dalla via della Seta. Il doppio petto indossato nel primo tempo fa spazio a un camice nero stravagante con pois neri e interno verde acqua nel quale Say è visibilmente più a suo agio. Il musicista rientra sul palcoscenico con uno spirito diverso, come quando una squadra di calcio dopo aver faticato in trasferta torna finalmente a giocare davanti ai propri tifosi.
Il brano è diviso in quattro parti scandite dal “rituale” del gong. L’intervento dello strumento risulta essere anche funzionale al pianista che ha il tempo per modificare le preparazioni del pianoforte ora messo in grado di suonare come un sitar nella Hindu Dances o di ricordare il passo lento di una carovana in Earth Ballad. Agli stessi orchestrali vengono richieste modalità di esecuzione inusuali come ad esempio agli archi di suonare oltre il ponticello o di tenere un ritmo battendo con l’archetto.
Il pianismo di Say raggiunge qui il massimo della sua espressività e riesce a convincermi e pienamente. Il risultato sonoro è molto coinvolgente e dal carattere “documentaristico”. Ascoltando i disegni sonori quasi minimalistici, mi venivano in mente le colonne sonore per i film di regime di Shostakovich, nei quali capita spesso di incontrare trame musicali ripetute che potrebbero essere allungate o accorciate a seconda delle esigenze del regista.
Conclude il concerto il rondò alla Turca in versione jazz di Say e il pubblico non lesina gli applausi.
Auditorium di Milano Fazil Say, pianoforte, Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
Immagine di copertina: Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, direttore e Pianoforte Fazil Say