L’uomo nero di Kaurismaki fugge dalla guerra: è uno di noi, perché non aiutarlo?

In Cinema

Orso d’Argento alla Berlinale, arriva “L’altro volto della speranza”, bellissimo film del 60enne regista finlandese. Nel racconto di Khaled, scampato alle bombe di Aleppo e approdato a Helsinki via nave, c’è la tragedia dei migranti e la nostra incapacità di accoglierli con efficienza e umanità. Volti noti della Kaurismaki factory (Sakari Kuosmanen), un attore che è fuggiasco davvero (Sherwan Haji), il soft-rock stile Leningrad Cowboys, le inquadrature geometriche, i colori iper-realisti cari al regista, sono tutti al servizio di un film in cui si fondono con armonia temi drammatici e humour narrativo

Arriva l’uomo nero. In tutti i sensi. È Khaled, un profugo siriano in fuga dalla battaglia di Aleppo dove ha perso quasi tutta la famiglia, che approda a Helsinki su un cargo pieno di carbone. E quando emerge dalla stiva, la faccia e i vestiti tutti anneriti da molte ore di scomoda e sporca navigazione, sembra davvero la personificazione delle paure e insieme dei sensi di colpa dell’Europa dei nuovi muri di oggi. Ma siccome siamo nelle sequenze iniziali di L’altro volto della speranza, il nuovo, bellissimo film del finlandese Ali Kaurismaki, fresco 60enne, premiato a Berlino solo con l’Orso d’Argento, questo “migrante assoluto”, coerentemente interpretato da un attore che è un vero rifugiato politico, Sherwan Haji, troverà poi, lungo il racconto, qualcuno che lo aiuterà.

E chi se non Sakari Kuosmanen, l’attore simbolo del regista che ne ha personificato la vena romantica (Nuvole in viaggio), noir (L’uomo senza passato) e anche quella più sperimentale (Juha), qui impegnato con impassibile autoironia nel ruolo del venditore di camicie Wikstrom che esordisce lasciando la moglie (e la fede nuziale sul tavolo della cucina di casa) per vendere tutto il campionario e giocarselo a poker? Incassato un ingente gruzzolo ed evitate le non amichevoli avances del padrone della bisca, investe il tutto in un ristorante surreale, che cambia stile assumendo esilaranti decor e gastronomia prima giapponesi (sushi di aringhe la specialità) poi indiani, a parodiare le mutevoli svolte del mass market ma anche, secondo qualcuno, più seriamente a simboleggiare l’incapacità di capire il mercato dell’economia contemporanea. È lì che Khaled troverà rifugio, nel senso di un lavoro da improbabile cameriere, una casa nel magazzino dello scatolame e una protezione dalle autorità, grazie a un passaporto falso prontamente prodotto dalla solidarietà semi-legale del proprietario.

In un film a più personaggi, che offre un ruolo a un’altra figura fissa della Kaurismaki Factory come Kati Outinen, esalta la maschera in perfetto equilibrio tra tristezza e durezza del cuoco (Janne Hyytiainen) e prevede un’alternanza, nello stile del regista, tra comicità e dramma (la continue battute e le frequenti aggressioni dei duri della Liberation Army Finland, emblema del razzismo di nuovo forte tra noi), l’incontro tra queste due infelicità iniziali detta il ritmo del racconto. Delineando all’inizio due storie parallele e mostrando soprattutto, è questo il tema forte che interessa all’autore, il percorso di Khaled tra interrogatori di polizia, civili ma esemplari nella loro burocratica disumanità e centri di prima accoglienza, che saranno meglio di quelli italiani ma restano un infinito parcheggio in attesa di un futuro ignoto. Esaurito il prologo, la struttura narrativa entra nel vivo e la scena diventa il buffo ristorante con le sue dinamiche interne ed e esterne, e la variegata umanità che lo popola, impegnata a interagire con, ma più che altro a difendersi da un mondo esterno minaccioso.

Secondo capitolo, dopo Miracolo a Le Havre (2011), di una “trilogia dei porti”, così l’ha definita l’autore, che con ogni evidenza racconta soprattutto il flusso migratorio verso l’Europa e la nostra scarsa sensibilità e capacità di farvi fronte con efficienza e umanità, Il volto della speranza è certamente uno dei film più politici di Aki, ma sempre nel suo stile a-enfatico e anti-ideologico. La sua è una “militanza” in favore della complicità verso gli “altri” della società, che non sono necessariamente solo i più poveri, o gli ultimi, ma più in generale chi sta “fuori” dal centro della scena, beve e fuma in quantità (come lui), e abita la notte. La cui oscurità suggerisce di non far tanto caso al colore della pelle di chi ti trovi di fronte, se ha bisogno d’aiuto.

Il cinema più recente di Kaurismaki affronta grossi temi come le conseguenze su scala mondiale dalla miseria e dalle guerre con uno stile che potrebbe quasi essere chiamato epico, per l’intento di distanziare un po’ dal pathos l’analisi della realtà e dei personaggi ragionandoci su, oggettivizzandoli nell’equilibrio geometrico delle inquadrature e nel perfetto bilanciamento, quasi iper-realista, dei colori (sua costante da sempre). Però la forza emotiva del materiale che si trova a gestire sembra poi forzargli la mano in una direzione solidale quasi chapliniana, che non è buonista ma etica, filosofica. Per dirla con le sue parole, le migliori: «In passato li abbiamo accolti, ora dovremmo considerarli nemici? Che fine ha fatto la nostra umanità? Se non siamo uomini non abbiamo il diritto di vivere». E ancora: «In Europa non c’è alcuna islamizzazione, non fatemi ridere: ci sono normali cambiamenti culturali di cui abbiamo bisogno per ringiovanire un po’ il nostro sangue».

TTP23

Tra realtà e fantastico, speranza e rassegnazione, caldo e freddo anche visivi, fragilità dei personaggi e durezza del mondo che abitano, Kaurismaki affida alla sua amatissima musica, quel rock un po’ easy che suona dai tempi dei Leningrad Cowboys, qui ospitato con veri e propri siparietti quasi a sé stanti, come in uno spettacolo di varietà, il compito di alleggerire una materia molto coinvolgente, difficile da raffreddare: se per lui il cinema è fondamentalmente un mezzo per capire la realtà, una vena goliardica e anti-climax beneficamente serpeggia sempre nella sua ispirazione. E al di là del messaggio, chiaro e inequivocabile, Aki trasmette sempre anche qualcosa di misterioso, nascosto nelle pieghe dei dialoghi, come sempre scarni e spesso sarcastici, e in quelle di volti che hanno già molto vissuto, sopportato, pianto e gioito. E che, si intuisce al di là del finale ottimista del film, ancora tante ne avranno da vedere. E da passare.

L’altro volto della speranza, di Aki Kaurismaki, con Sherwan Haji, Sakari Kuosmanen, Janne Hyytiainen, Kati Outinen 

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