“I demoni e la pasta sfoglia” di Michele Mari, raccolta di scritti critici, ma anche testo di poetica, torna in libreria in una nuova edizione per Il Saggiatore. Ne pubblichiamo un estratto in cui Mari esplora il rapporto dello scrittore con la realtà.
Nel 1810 una tremenda balena grigia imperversava nel mare del Cile, al largo del promontorio di Mocha; battezzata dai marinai Mocha Dick, continuò a seminare morte fra i suoi persecutori fino al 1859, anno in cui cedette agli arpioni di una baleniera svedese. Un giorno il vampiro Herman succhia questa storia, e concepisce Moby Dick. Nel 1796 un giovane studente dell’Università di Pavia, Gerolamo Ortis, si suicida. Il vampiro Niccolò Ugo, che frequenta quelle stesse aule, beve di questa vicenda quel tanto che gli basta a rileggere con drammatica attualità I dolori del giovane Werther, e scrive le Ultime lettere di Jacopo Ortis.
Che il rapporto fra lo scrittore e la realtà sia di tipo vampiresco è abbastanza evidente (lo notarono già i primi commentatori dell’episodio dantesco di Paolo e Francesca, lo hanno ribadito fin troppo fiscalmente gli esegeti di Proust); a cos’altro alludono, infatti, i termini di «materia» o di «fonte» se non al nutrimento? E perché, altrimenti, si userebbero i vocaboli «linfa» e «succo» a indicare la vitalità e il senso di un’opera letteraria? Certo esistono diversi gradi di vampirismo letterario, dal più semplice, consistente nell’appropriazione di bocconi mondani ma non nella loro digestione, fino al più mediato, paragonabile per forza trasfigurativa ai processi della cristallizzazione o della distillazione; ma indipendentemente dal grado il vampirismo si distingue anche a parte objecti per la natura della cosa succhiata, trattisi di certa scienza destinata a diventar fantascienza, o di quella speciale realtà che è la tradizione letteraria stessa (lo scrittore come vampiro dei propri padri, cioè succhiatore di un sangue già mille volte succhiato). E c’è infine un vampirismo, davvero molto economico, che potremmo chiamare obliquo: mi riferisco alla capacità (grande in Stephen King, stupefacente in Lovecraft) di ingrassare un testo con le paure del lettore, chiamato in questo modo ad assaporare il proprio stesso sangue: donde quella morbosità, quell’ambiguità, quell’imbarazzo che accompagnano ogni autentica esperienza letteraria dell’orrore.
E tuttavia non ci si deve compiacere eccessivamente di queste immagini, pena un’idea troppo estroversa della creazione letteraria. In fondo i più convinti della natura vampiresca di questa creazione non sono gli autori, ma certi loro interlocutori. «Quando scriverai il tuo prossimo libro ricordati della tal cosa» van predicando costoro, oppure: «Potresti ricavarne un bel raccontino», o anche: «Sapessi che vita avventurosa ha avuto quel tale, perché non ci parli un po’ insieme?». Inviti simili presuppongono la convinzione che lo scrittore si procuri la materia alla variopinta fonte della vita (intesa come mondo, spettacolo dell’accadere, catalogo delle forme) anziché attingerla al lutulento botro delle proprie angosce e ossessioni. E invece è proprio lì sotto, è proprio lì dentro che lo scrittore sa di poter trovare in qualsiasi momento il sangue che gli è necessario a impastare la farina del mondo; voyeur e vampiro di se stesso, solo risucchiando quel plasma egli diventerà il re Mida che tutto assimilando contagia.
Raccontare una storia, da questo punto di vista, è davvero un’opera di contaminazione fra l’innominabile guazzo dell’io da una parte, e la vita, la morte, la natura, la storia, la società dall’altra. Fra i pochissimi che, sospettando di mediocrità e di opportunismo questa contaminazione, hanno voluto coniugare il proprio sangue al nulla, e del nulla hanno sempre fatto il loro sontuoso argomento, va posto senz’altro Giorgio Manganelli: quando non si voglia considerare che nel suo caso il sangue del Vocabolario non era meno rosso di quello delle arterie.
I demoni e la pasta sfoglia, Il Saggiatore, 2017, pp. 754, €28