Dal 22 al 30 aprile allo Spazio Oberdan di Milano si può vedere “The seasons in Quincy – 4 portraits of John Berger”, ritratto-omaggio dedicato allo scrittore, artista e intellettuale inglese morto tre mesi fa. Un progetto a più mani, coordinato, in parte diretto e interpretato da Tilda Swinton, che racconta la vita e le idee di Burger: dai dibattiti su avanguardia creativa e politica degli anni ’60-’70 al suo lungo soggiorno in un paese alpino della Francia, lontano da Londra, in cerca di un’esistenza più autentica
Una curiosa analogia, anche temporale, avvicina la splendida mostra dedicata dalla Tate Britain alla vita e alla carriera artistica di David Hockney e il film The Season in Quincy, prodotto, co-diretto e interpretato dall’attrice Tilda Swinton (sarà in programmazione al cinema Oberdan di Milano dal 22 al 30 aprile). Nel primo caso, la stanza conclusiva dell’esposizione offre alle pareti della sala, in una doppia coppia di proiezioni a specchio, quattro meravigliosi video realizzati nello stesso luogo (una strada di campagna dello Yorkshire) e con gli stessi movimenti di macchina, ciascuno a illustrazione del clima e dell’impatto visivo peculiari di una delle quattro stagioni. A comporre un mosaico temporale dai colori visivamente tenui ma psicologicamente forti. Nel secondo caso è l’intera scansione del film, che ha come sottotitolo Four Portraits of John Berger, ad essere modellato, attraverso quattro interviste-ritratto di pari lunghezza (22-23 minuti), tutte dedicate allo scrittore, artista e intellettuale britannico morto poco più di tre mesi fa (e il lavoro che esce ora può essere considerato una sorta di delicato e interessante ricordo) su forme, colori e atmosfere indissolubilmente legati alla progressione stagionale.
Curiosa analogia fino a un certo punto, perché essendo al centro di entrambi gli eventi l’esposizione della vita e delle opere di due fra i più grandi intellettuali britannici del ‘900 e oltre, l’elemento diacronico, negli anni oltre che nelle stagioni, ovviamente, è piuttosto significativo. Così mentre di Hockney vediamo tutto, dai lavori grafici adolescenziali alle opere cangianti (anche quelle bellissime) realizzate fino ad oggi sull’iPad, anche Berger ci appare in diverse e successive situazioni, dai dibattiti sull’arte e le sue evoluzioni linguistiche, la politica, l’impegno, tipici degli anni ’60-’70, fino al quarantennale soggiorno finale nel villaggio alpino francese di Quincy (da cui il titolo del film), dove si trasferì con l’amata moglie Beverly, disgustato per la vita in Gran Bretagna, alla ricerca di autenticità lontano dalla vita nella metropoli e per immergersi in un luogo in cui sopravvive ancora uno stile di vita rurale. E dove i quattro protagonisti del film, l’amica di lunga data Tilda Swinton (con cui divise il giorno, il mese e la città di nascita, Londra), il regista Christopher Roth, il musicista Simon Fisher Turner e lo scrittore Colin McCabe sono andati a trovarlo per realizzare questo composito ritratto.
Il primo capitolo vede Berger e Swinton chiacchierare dei propri padri, che hanno entrambi vissuto la guerra ma non l’hanno raccontata ai figli; il secondo spezzone si concentra sul rapporto tra uomo e natura, mettendo a confronto il suo libro Perché guardiamo gli animali? e L’animale che dunque sono scritto dal filosofo Jacques Derrida; il terzo è il più direttamente politico, tra marxismo, Fernand Leger (l’artista preferito di Berger), diversità e integrazione, vita e morte; l’ultimo, quello diretto dalla Swinton, ritrae una giornata che i suoi gemelli, Honor e Xavier, trascorrono in compagnia del figlio di Berger.
Quattro mediometraggi ciascuno con uno stile proprio, tra paesaggi aperti e luminosi di montagna e ambienti pieni di oggetti e di vita vera, quattro omaggi al personaggio e alle sue idee unificati dalla presenza affettuosa di Tilda Swinton, che con la disinvoltura e la serenità di un rapporto diretto mescola l’alto e il basso, tagliare le mele e raccogliere il ribes, e discutere di avanguardia artistica e rapporto padri-figli.
Gabriele Porro