Un magnetico de Capitani dà vita al Lear di Bond: Lisa Ferlazzo Natoli allestisce uno spettacolo movimentato e febbrile, che sarebbe piaciuto… a Bazin. Vi spieghiamo perché
Il teorico del cinema André Bazin – che si esaltava di fronte al sapiente utilizzo della profondità di campo fatto da Orson Welles in Quarto potere – avrebbe riservato al Lear di Lisa Ferlazzo Natoli applausi a scena aperta e una chiassosa standing ovation alla fine. Il palco della Sala Shakespeare dell’Elfo Puccini infatti è utilizzato fino all’ultimo centimetro: tra il proscenio e la parete di fondo non c’è un piano in cui non succeda continuamente qualcosa. Un montaggio dell’azione molto cinematografico aiuta lo spettatore a focalizzarsi su un evento piuttosto che su un altro, anche se spesso si rimane con il dubbio di star guardando il punto sbagliato del palco… e anche questo a Bazin sarebbe piaciuto molto.
Se sulla scena ci fossero tante persone quante ce ne sono in una produzione pomposa dell’Aida, probabilmente il pubblico si troverebbe di fronte a una serie di tableaux degni del più famoso dipinto di Gentile Bellini, La predica di San Marco ad Alessandria d’Egitto, giusto per fare un esempio – tratto da un’altra arte ancora – in cui la profondità di campo è portata al parossismo. Invece in questo allestimento del Lear di Edward Bond gli attori sono “solo” otto e incarnano con tempestività e affiatamento uno sproposito di personaggi (ben 35) che emergono dai punti d’ombra del palco per poi esserne riassorbiti subito dopo, schiavi della pressante drammaturgia di Bond, complessa ma razionale.
L’unico punto fisso è il Lear di un Elio De Capitani magnetico, il quale dà il meglio di sé proibendosi di ricorrere a quegli automatismi recitativi che a volte rendevano un po’ simili i tanti “potenti” da lui interpretati, come Roy Cohn e Richard Nixon. Re Lear non assomiglia a nessun altro dei suoi personaggi, anche se si può dire che condivida il loro narcisismo, essendo a sua volta impegnato nella creazione di qualcosa di “grande ma terribile”: un Muro che – stando a quello che dice – servirà per proteggere i suoi sudditi, ma che in realtà avrà l’unico scopo di circoscrivere le sue paure e di confermarle al tempo stesso.
La costruzione del Muro è l’unico modo che Re Lear riesce a immaginare per prendere possesso della sfuggente realtà circostante. Ma c’è di più: il Muro, nella sua ottica, è anche l’espediente che gli permetterà di rendersi eterno e di differenziarsi dall’inesistenza dei propri sudditi. Paradossalmente comincerà ad esistere – come persona – solo quando perderà la corona e si troverà in balia della terrificante negligenza dei suoi degni successori. Le sue perfide figlie (interpretate con scaltrezza da Pilar Perez Aspa e da Alice Palazzi), pur avendo ereditato il disprezzo di Lear per la vita umana, si differenziano da lui per il loro rapporto più concreto col Potere, che dal loro punto di vista è semplicemente qualcosa da azzannare e spolpare in fretta e furia. Alle due regine manca quel senso di predestinazione, quell’idea di un’investitura divina che rende il padre (così come la sua emula, la futura dittatrice Cordelia) un monumento vivente al narcisismo.
Nel momento in cui le figlie muoiono qualcosa si spegne nella drammaturgia di Bond, che perde gradualmente vitalità; per fortuna gli otto attori, mantenuti in febbrile attività dall’angosciante intermittenza delle luci (firmate da Luigi Biondi), non perdono un grammo di energia e motivazione, evitando così che i tableaux diventino inerti a dispetto del loro perpetuo movimento.
(Foto di copertina di Sveva Bellucci, video di Teatro Elfo Puccini)
Lear di Edward Bond, fino al 7 maggio al Teatro Elfo Puccini