Fabrizio Gifuni porta al Parenti il primo capitolo de “Il dio di Roserio”, travagliato racconto d’esordio di un Testori che provocò scandalo e stupore
Fabrizio Gifuni porta a Milano, ancora stasera e domani al Parenti, dopo un’unica recita nel dicembre 2015, il primo capitolo de Il dio di Roserio travagliato racconto d’esordio, nel ‘54, di un Testori che provocò scandalo e stupore e poi riapparve, dopo alterne vicende e con dialetto più sfumato, in Il ponte della Ghisolfa.
Da dieci anni Gifuni porta avanti questo suo genere nuovo di teatro, un ibrido ancora senza nome in cui esplora, solo in scena, un testo e il suo autore e soprattutto il suo linguaggio. Attento appunto ai mutamenti della lingua, Gifuni prega solo di non chiamarli reading, ed ha ragione. Lui entra nel marasma delle pagine, arrivando quasi alla primaria invenzione del racconto e lo fa, specie in questo caso, con una voracità fisica, un sudore, una potenza vocale mai disgiunti dal gusto dell’analisi, della parola, quel gioco impercettibile tra la prima e la terza persona che è stato sempre il segreto di Ronconi, ora trasmesso all’ultimo suo allievo prediletto, il fratello Lehman.
Gifuni dopo Gadda, Pasolini e Camus, Bolano, Cortazar, incontra il gran lombardo Testori e sa che è un paghi uno e prendi due perché sotto l’ala di Testori c’è il Manzoni. E poi l’autore della Ghisolfa e della Gilda, della Maria Brasca e dell’Arialda, è di casa al Pier Lombardo di cui fu socio fondatore, voce geniale solista ai tempi dell’Ambleto, inaugurazione del teatro.
Della storia del ciclista dice: «Intanto l’ho approfondita, lo spazio scenico s’è ampliato, 50×50, e ho capito che il fascino deriva proprio dai motivi che fecero allora scalpore: la contaminazione del linguaggio per accorciare le distanze tra il parlato e lo scritto e la confusione dei piani spazio temporali con cui il gregario Consonni, tramortito, racconta la corsa pazza del Dante Pessina, il ciclista che lo manda fuori strada e in coma. Questa iniziale incoscienza l’autore la ritroverà alla fine: “In exitu” è un cerchio che si chiude».
E non è casuale se Gifuni con la forza medianica con cui incendia la platea, ha morso prima la mela di Pasolini (Ragazzi di vita è del ’55) poi di Testori: l’affinità tra i due, la voglia di rompere le fila, le ricerche linguistiche, lo spostare il riflettore nelle borgate degli umili e nell’hinterland della società, sono storia: «Ricorrere al gergo popolare – dice -vuol dire conquistare, arricchire, un italiano più consapevole, arricchire un processo di identità». Quando Testori scrisse Il ventre del teatro, rimettendo il rito al centro della scena, a un passo dall’atto di fede, è come se avesse avuto già in mente il furore emotivo di Gifuni, ultimo meraviglioso scarrozzante: «La ferita della vita si fa così teatro. L’attore non dimentica la sua solitudine, si affida alla platea, cioè il coro. Ogni sera sento questa condizione con tutta l’esattezza fisica che essa comporta perché si deve creare e mai staccare un campo magnetico col pubblico attivando un principio rituale che va al di là delle qualità tradizionali del lavoro di palcoscenico».
Il dio di Roserio, al Teatro Franco Parenti