Chris Cornell, icona del grunge, è diventato leggenda

In Musica

Il saluto a una delle voci più caratteristiche della storia della musica rock, un artista unico nel suo genere che lascia un vuoto immenso

18 settembre 2015. Esce Higher Truth, il quarto disco solista di Chris Cornell, prodotto da Brendan O’Brien per Universal Music. Un disco più intimo e cantautorale, a cui segue un tour mondiale in acustico.

Gennaio 2016. I Soundgarden tornano in studio per scrivere nuovo materiale, a quattro anni di distanza da King Animal.

Novembre 2016. I Temple of the Dog, a venticinque anni dall’uscita del loro primo e unico disco, si riuniscono per otto concerti completamente sold out negli Stati Uniti.

20 gennaio 2017. Teragram Ballroom, Los Angeles. Durante l’Anti-inaugural Ball, la manifestazione di protesta organizzata dai Prophets of Rage in contemporanea all’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, Chris Cornell raggiunge sul palco Tom Morello, Brad Wilk e Tim Commerford: gli Audioslave tornano a suonare dal vivo a dodici anni dall’ultima apparizione live.

10 marzo 2017. Cornell pubblica il singolo The Promise, scritto per la colonna sonora dell’omonimo film con Christian Bale, che affronta il controverso tema del genocidio armeno del 1915. I proventi del brano vengono destinati all’International Rescue Committee.

 

17 maggio 2017. Fox Theater, Detroit. I Soundgarden salutano il pubblico con Slaves and Bulldozers che, come spesso accade nei concerti recenti dei quattro di Seattle, si trasforma in una cover di In My Time of Dying dei Led Zeppelin.
Sembra una data come le altre, l’ennesimo capitolo di una carriera lunga oltre trent’anni, che ha portato Chris Cornell ad essere universalmente riconosciuto come una delle voci più iconiche ed influenti della storia del rock. Una carriera che lo ha visto affrontare i suoi demoni, uscendo dallo scontro con un’immagine nuova: non più, o non solo, il leader dalla voce esplosiva dei Soundgarden, prima band grunge a firmare per una major o il frontman politico e sferzante degli Audioslave. Il nuovo Chris Cornell è cantautore acustico, sperimentatore, oltre che un uomo innamorato della sua famiglia, della musica e, apparentemente, di una vita che, pur tempestata di nubi, gli aveva concesso di trovare una luce.
E invece, poche ore dopo, in una stanza dell’MGM Grand viene ritrovato il corpo senza vita di Chris Cornell. La polizia locale conferma: si tratta di suicidio.

Chris Cornell, nel mondo del grunge, era quasi un sopravvissuto. Le ombre che il grunge e la scena musicale di Seattle a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta avevano impresso nel suo dna sembravano averlo scalfito, ma non consumato, come accadde invece a tanti, troppi artisti di quella scena musicale così unica e così determinante per generazioni e generazioni di ragazzi appassionati di musica.
Andrew Wood, Kurt Cobain, Layne Staley, Mike Starr, Scott Weiland. Sono solo alcuni dei padri del grunge che ci hanno lasciati troppo presto. Tutti inghiottiti da un buco nero che sembra nascere dalla grigia pioggia di Seattle, da quella stessa atmosfera inquieta che non solo è parte integrante della loro musica, ma è scritta nel dna di chiunque provenga da quel mondo.

 

Chris Cornell quest’inquietudine l’ha sempre vissuta, e l’ha sempre combattuta con la sua arma migliore: la sua voce capace di cantare su tre ottave diverse, di suonare blues o metal senza battere ciglio. Una guerra, quella alla depressione, incessante e straziante, a cui Chris non si è mai sottratto. Troppo intenso il bisogno creativo per essere incanalato in un’unica esperienza, troppo grande il talento per poterlo mettere a tacere. Soundgarden, Temple of the Dog, Audioslave, oltre a cinque dischi solisti e a innumerevoli collaborazioni. Un percorso artistico unico, durante il quale Chris aveva abbandonato alcol e droghe, avvicinandosi in maniera incredibilmente sensibile alla politica (leggasi l’esperienza con gli Audioslave) e ai problemi sociali – nel 2012 fonda insieme alla moglie la Chris and Vicky Cornell Foundation, ente benefico che si batte per i diritti di bambini, poveri e senzatetto.

La sua ultima veste, quella acustica e cantautorale, ce lo aveva restituito rinvigorito e i demoni del passato sembravano lontani. Assistere ad un suo concerto solista era un viaggio lungo tutta la sua carriera, ripercorrendo ogni esperienza musicale attraverso i suoi occhi. L’ultimo Cornell era diverso: saliva sul palco, imbracciando la chitarra acustica, e si raccontava al pubblico, parlando di come sono nate alcune sue canzoni, di quali brani l’hanno da sempre affascinato, di quali progetti avesse in serbo per il futuro. Le nubi sembravano diradarsi e le ombre sembravano finalmente sparire. Ripercorreva la sua carriera, suonando brani tratti da tutte le sue “vite” musicali. Invitava sua figlia sul palco a cantare Redemption Song di Bob Marley. Cantava e danzava mentre un giradischi suonava le note di When I’m Down. Descriveva con il sorriso la prima volta che aveva cantato Josephine, eseguita al telefono per Vicky prima che si sposassero.

 

Le ombre, invece, non se n’erano mai andate. Ripercorrere le date ricordate poche righe sopra non rende che più lancinante il dolore e più immenso il vuoto che Chris lascia in chiunque abbia incrociato la propria strada con la sua – amico, compagno o semplice fan. Tanti dei suoi versi, in questo momento, sembrano dirci che tutto questo si poteva prevenire. La verità è che non è così. La verità è che un male del genere, quando arriva, non si può sconfiggere una volta sola: è una catena da cui è quasi impossibile liberarsi definitivamente. E se questa catena ha avuto la meglio sull’uomo Christopher John Boyle (Seattle, 20 luglio 1964 – Detroit, 17 maggio 2017), la leggenda Chris Cornell, con la sua musica, continuerà a combattere, “’til every trace of this misery chain is gone for good”.

 

Immagine di copertina di Alberto Sangalli

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