Con “L’infanzia di un capo” il giovane attore/regista americano Brady Corbet porta sullo schermo un testo breve dello scrittore francese che tratteggia i primi, difficili anni, in una famiglia sfilacciata e accanto a un padre autoritario, di un ragazzo destinato a un grande avvenire. Ma più che gli spunti filosofici del pensatore della “Nausea”, emerge nel film un clima orwelliano da dittatura incombente, da democrazia occidentale minacciata dall’abilità relazionale e dal potere seduttivo dei leader politici
È transitato dalla Mostra del cinema di Venezia 2015, vincendo un paio di premi minori, L’infanzia di un capo di Brady Corbet, attore americano 28enne con già una certa esperienza sia nell’actioner che nel cinema d’autore (Funny Games di Michael Haneke, Melancholia di Lars Von Trier) qui al debutto come regista-sceneggiatore. E la scelta del copione d’esordio è stata decisamente impegnativa, perché alla base del film c’è l’omonimo racconto di Jean Paul Sartre, contenuto nella raccolta di cinque brevi opere che il grande scrittore e filosofo francese pubblico sotto il titolo complessivo di Il muro. Uscito nel 1939, l’anno dopo l’opera rivelazione con La nausea, è uno dei testi basilari, sul piano letterario e speculativo della sua prima fase di riflessione esistenzialista che partiva dal rifiuto, dalla nausea appunto, della realtà costituita.
Il film di Corbet, più che seguire fedelmente il pensiero sartriano, sembra in verità riceverne un’ispirazione, e piuttosto “at large”, innanzitutto per il clima culturale che suggerisce, perché siamo piuttosto in un mood orwelliano che esistenzialista: e l’invettiva polemica sottesa alla sceneggiatura si rivolge più contro il totalitarismo politico e le sue origini individuali in una pedagogia falsamente democratica ma in realtà autoritaria, esercitata oltretutto da una famiglia poco credibile perché molto sfilacciata, piuttosto che indicare il disgusto globale per una società costituita corrotta, che sempre più mostrava e mostra l’inutilità dei suoi valori, dei suoi fondamenti, dei suoi ambigui comportamenti pubblici e privati sempre disposti al compromesso.
Ma le differenze sono consistenti anche nel plot vero e proprio. Sartre racconta la crescita di un ragazzo, Lucien Fleurier, dai suoi primi anni di età fino all’età adulto. Figlio di un ricco industriale, è alla ricerca di un’identità, di un significato generali, nel tentativo di capire cosa c’è di sbagliato in lui. Passa dalla psicanalisi freudiana all’amore per un poeta omosessuale, per finire col far parte di un’organizzazione fascista giovanile, pestando brutalmente, assieme ai suoi amici, un ebreo che sta leggendo L’Humanitè.
Nel film, invece, il padre è invece un diplomatico al servizio del presidente americano T. Woodrow Wilson, impegnato a Parigi e dintorni nelle trattative finali per la pace conclusa dal Trattato di Versailles, che nel 1919 mise davvero la parola fine alla Prima Guerra Mondiale. Ponendo però, secondo molti, le basi della Seconda. E solo nel brevissimo frammento finale non vediamo più in età verde l’odioso Prescott (Tom Sweet, etereo a vedersi ma efficace nella freddezza), un Tadzio spigoloso e strafottente ma dalle impareggiabili capacità manipolatorie (e questo, suggerisce Sartre, ne farà certamente un leader politico), ma per l’appunto, “il capo”, cresciuto e divenuto popolare e potente in un contesto visibilmente autoritario, che potrebbe, con una certa indifferenza, essere il nazismo di Hitler o il comunismo di Stalin.
È Robert Pattinson a dare il volto al “capo” in forma compiuta, ma nel film l’avevamo visto già nel ruolo dell’ambiguo Charlie, giornalista-scrittore amico di famiglia, e forse amante della giovane e bellissima madre di Prescott, una Berénice Bejo perennemente a lutto (di sé stessa soprattutto, come fosse già defunta) in una versione sofferente, cupa e punitiva forse anche oltre le necessità narrative. Minacciosa e narcisista, è forse la figura del padre repressore (Lian Cunningham, il più “in palla” di tutti), nemico e castratore di ogni spunto creativo e ribelle del ragazzo, quella meglio delineata del film: a conferma ulteriore che il Sartre di Corbet è più psicanalitico (pure troppo, forse) che filosofico.
L’infanzia di un capo di Brady Corbet, con Robert Pattinson, Stacy Martin, Bérénice Bejo, Liam Cunningham, Sophie Curtis, Tom Sweet