Ripreso in mano da insegnante, ma più ancora da scrittrice, il grande romanzo che ha contribuito a fare gli italiani e la loro lingua ancor commuove. Ma i ragazzi, in classe, faticano tra toscanismi e isgarbatezze. E allora, editori, perché non trovare il coraggio di tradurre l’opera manzoniana in italiano contemporaneo?
Manzoni, per senso del dovere, due anni fa. Entrata di ruolo in un Istituto Tecnico, ho fatto i conti e ho capito che dall’ultima lettura integrale de I promessi sposi erano passati almeno vent’anni. Letti come li leggono tutti, da studente, mentre adesso ero professoressa.
E questo è il primo problema. Per quanto ben disposto possa essere l’allievo, per quanto appassionato sia l’insegnante, la prassi scolastica condiziona l’esperienza. Davanti a Don Abbondio che balbetta di paura, o giochi in difesa da adolescente in obbligo scolastico (due stupidate sulla vita, due sulle opere, gli appunti passati dalla secchiona, wikipedia il giorno prima dell’interrogazione, sullo smartphone) o giochi in attacco da docente volenteroso (note, apparato critico, la funzione del paesaggio, il narratore onniscente, il tema del coraggio, l’ironia, i più illuminati tra noi organizzano laboratori sul testo). Studente o insegnante: mai lettore. Povero Manzoni.
Non ci sono riuscita. Cioè, volevo riprendere in mano I promessi Sposi per studiarli al fine di utilizzarli in classe, ma non ce l’ho fatta. Li ho letti e basta. Credo che un po’ dipenda dal fatto che scrivo romanzi. Scrivere non è una professione, è una condizione. Faccio l’insegnante, ma sono uno scrittore. E’ un abito mentale. Consiste più o meno in questo: i romanzi degli altri, Manzoni compreso, sono (solo) libri che qualcuno ha scritto. Buoni o cattivi, riusciti o no, non opere da studiare nel senso scolastico del termine (vita, opere, edizioni, critica). Neppure nel senso accademico (non sono più capace). E da lettore-scrittore, se un romanzo è buono, io rubo. Ma questo non c’entra niente con la didattica e con le massicce dosi di narratologia che dovrei inoculare per fare in modo che, all’Invalsi, gli adolescenti a me affidati non sembrino più fessi dei loro coetanei OCSE -PISA.
Non scrivo tutto quel che ho cavato dalla rilettura de I promessi sposi, che è molto, e che spero finisca in qualche modo nel romanzo che sto scrivendo. Solo due parole sulla lingua, visto che Manzoni se l’è inventata. Non c’era, gli serviva, s’è messo di buzzo buono e l’ha costruita. C’era l’italiano scritto, certo, ma stava perlopiù nelle poesie, mentre il romanzo è una cosa che ha a che fare con la vita quotidiana (pranzi, cene, baci, scazzi, corna) e quindi servono le parole di tutti i giorni. Gli italiani, però, tra loro non parlavano italiano, più che altro dialetto. Dialetti, plurale. (Tecnicamente non erano neanche italiani. Lo sono diventati anche grazie a questo libro). Immaginate le complicazioni?
Vi risparmio la tiritera tecnica (la trovate su qualunque storia della letteratura), vale l’enormità dello sforzo. Il coraggio, la visionarietà, la determinazione di scrivere-riscrivere-riscrivere finché le parole non suonano come devono: vive. Lavorare su questa cosa per buona parte della propria esistenza; quest’energia, questa volontà di costruire una lingua possibile e accessibile a tutti: rileggo le pagine sulla peste e mi commuovo.
Ora, essendo per sua natura la lingua una cosa che cambia nel tempo, a più di un secolo e mezzo dall’ultima edizione la lingua de I Promessi Sposi suona un po’ âgée. I miei adolescenti in obbligo scolastico, che leggono senza eccessivo sforzo autori del Novecento, con Manzoni faticano come sull’Everest senza bombole. Le note non bastano. E’ tutto un cosa vuol dire questo e cosa vuol dire quello, un corpo a corpo coi toscanismi, la sintassi sontuosa, le ismanie, le isgarbatezze, gli a un di presso, e voi capite che mica si può leggere così, vivaddio. Così, semmai, si studia. E siamo daccapo, povero Manzoni.
Quindi un appello agli editori: fatevi coraggio, gettate il cuore oltre l’ostacolo, mettete mano al portafogli e traducete I promessi sposi in italiano contemporaneo. L’avete fatto col Decameron, ora tocca a Renzo e Lucia. Non mi sogno di chiedervi la traduzione della Commedia o del Furioso (ma sul Principe fateci un pensiero). L’importante è liberare i ragazzi di ciò che Manzoni, se fosse ancora tra noi, non esiterebbe a cancellare, sostituire, modificare affinché i suoi personaggi riescano sulla pagina come li ha pensati e voluti e sofferti: vivi.
Fatelo anche per carità di patria. Stremato dall’estenuante esercizio di decrittazione che ci porta via tutta l’ora (altro che laboratorio), il meno timido degli adolescenti-Invalsi finisce sempre col domandarmi: «Ma perché dobbiamo leggere ‘sta roba, prof?».
Perché siamo italiani, rispondo. I francesi hanno Emma Bovary e Père Goriot, gli inglesi Oliver Twist, David Copperfield, Jane Eire. Noi Don Abbondio, Azzeccagarbugli, il Griso e la monaca di Monza. Siamo quella cosa lì, fidatevi, dico.
E fidarsi, magari si fidano, ma sarebbe una buona cosa se potessero scoprirlo da soli leggendosi l’assalto al forno delle Grucce senza consultare mille volte il dizionario.
Imagine di copertina di Michael D Beckwith