Riletta, anzi ascoltata, Natalia Ginzburg con il suo ‘Lessico famigliare’ pensando di tornare al noto, così simili gli ambienti, i vezzi, persino le montagne. E invece nuove profondità si sono aperte, perché la lettrice, nel frattempo, ha scritto e tradotto
Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg è stato un libro che ho furiosamente letto e riletto negli anni dell’adolescenza e della gioventù. Non avrebbe potuto essere altrimenti: era un libro che “mi parlava”, Natalia era una specie di zia talentuosa che raccontava una storia tanto simile alla mia che mi pareva di farne parte.
La stessa educazione borghese austera ai limiti del sado-masochismo, la figura paterna perennemente sospettosa, ostile, quel miscuglio di illuminismo e paure retrive. E poi, addirittura, le stesse montagne – proprio quelle, il “malignazzo di saint Jacques d’Ayas – da salire obbligatoriamente vestiti da alpinisti, con gli scarponi da un quintale che scorticavano i piedi e i calzettoni di lana che pizzicavano da maledetti, mentre la felice popolazione dedita alle “negrigure” più infami camminava in scarpe da tennis e camiciole. Lo stesso ebraismo distratto, aleatorio però tenace; perfino le vie del libro mi erano familiari, in corso Francia e in corso Re Umberto ci stavano amici a me cari, e Torino all’epoca era una seconda patria.
L’avevo letto così tante volte che a distanza di decenni me ne affioravano i tormentoni, il baco del calo del malo, il Zurnàl de Zenèv, gli sbrodeghezzi. Al punto che non ho mai capito se quel sarcastico “astro nascente” che mio padre e mia madre si scagliavano addosso, gelosi, quando l’uno o l’altra stringevano una nuova e travolgente amicizia, fosse un’espressione rubata ai Levi o una creazione autonoma dei Morpurgo-Calderoni.
L’ho ripreso in mano dopo molto tempo. Anzi no, non in mano per l’esattezza: nelle orecchie, trattandosi di un audiolibro letto per la Rai da Anna Bonaiuto (splendida l’interpretazione, ma quei due triestin-milanes-torinesi che vengono fatti parlare in veneto mi hanno un po’ guastato la festa).
Molte cose per me sono cambiate da quelle prime furiose letture di gioventù. L’ambiente che Natalia Ginzburg aveva raccontato non c’è più: non solo non ci sono più, come è ovvio, certe abitudini, ma non ci sono più quelle persone. Quel lessico famigliare ora è per me come lo yiddish, una lingua bella, ma perduta o tenuta artificialmente in vita. E quindi già la rilettura ha avuto un sapore dolceamaro che prima non percepivo.
Ma soprattutto da allora ho scritto. Ho scritto qualche libro, e soprattutto ho scritto ricordi di famiglia. Sono diventata traduttrice e molto più attenta all’uso delle parole, al ritmo, allo stile. E rileggendo mi sono resa conto di quanto mi abbia influenzata, senza che me ne rendessi conto, la scrittura di Natalia Ginzburg, di quanto inconsciamente io abbia aspirato a questo modo di scrivere che è leggero e cristallino, un po’ trattenuto, a volte addirittura sbrigativo – diffondersi in dettagli, analizzarsi troppo, sarebbe stata probabilmente per la Ginzburg una negrigura, e a casa mia una cainusata, nome misterioso con il quale si indicava un’effusione di sentimenti eccessiva e verbosa.
Sono rimasta colpitissima, nella maturità, da come la narratrice è tutta proiettata all’esterno. Non solo si ritrae: scompare. Sappiamo che è presente, perché racconta, ma non la vediamo. Sappiamo tutto (sempre sobriamente) degli altri, dei familiari, ma Natalia si mostra solo per rari istanti, come Hitchcock nei suoi film. Cosa sappiamo dei rapporti con la madre? Che la madre l’accusa “di non dare spago”. Cosa si dice dell’amore con Leone Ginzburg? Nulla di nulla, se non che a un certo punto un unico e per questo lancinante “ne sentivo la mancanza”. Siamo agli antipodi del flusso di coscienza. La Ginzburg sembra averla imbavagliata, la coscienza, per guardare gli altri, così interessanti.
E nel guardare coglie dei gesti, e da questi gesti, da questi atteggiamenti parte per certi ritratti che paiono avere un acume psicologico straordinario.
La mano scontrosa con cui Pavese estrae parsimoniosamente di tasca le ciliegie e le offre agli amici; e poi la descrizione di Pavese spaventato dalla vita e dalle sue sorprese, guardingo, puntiglioso, incapace di trasferire nelle cose importanti – l’amore, la scrittura – l’ironia amara di cui era ricco, ironia che come dice la Ginzburg moriva con lui, perché nei libri non ve n’era traccia. E poi altri gesti, altri sguardi fulmineamente colti. Gli occhi spaventati e felici di Adriano Olivetti quando aiuta qualcuno a fuggire; il finto distacco di una tenera Lisa Foa, che non vuol ammettere di essere diventata madre premurosa e apprensiva, e cammina con i piedi magri e infantili dentro i sandali.
Insomma ho riletto pensando di tornare al noto, al famigliare: mi si sono aperti abissi (piacevoli abissi) di profondità.
Immagine di copertina di Dustin Delatore