Va in scena al 60mo Festival di Spoleto (in una chiesa che se non era già sconsacrata prima lo sarà di sicuro poi) Atti osceni di Moises Kaufman, una bella commedia americana scritta nel 97 e basata sugli atti dei documenti processuali di Oscar Wilde. Dirigono Bruni e Frongia, in attesa di portarlo all’Elfo…
Va in scena stasera e per tre giorni al 60mo Festival di Spoleto, in una chiesa che se non era già sconsacrata prima lo sarà di sicuro poi, Atti osceni di Moises Kaufman, una bella commedia americana scritta nel 97 e basata sugli atti dei documenti processuali di Oscar Wilde, per la prima volta diffusi con l’altoparlante del teatro, di quello che non si dimentica.
Lo spettacolo, che poi sarà al Puccini di Milano dal 20 ottobre, ha le stimmate delle migliori produzioni dell’Elfo: grande valore civile, professionalità al massimo, intuizione di un tema che interessa l’opinione pubblica anche se coniugato al passato ma con immensi riverberi sul presente ed anche anticipazioni e vere profezie. Tre processi, uno di Wilde per diffamazione contro il marchese di Queensberry, padre del suo amato amico Alfred Douglas; gli altri due intentati dalla Regina (leggi Vittoria, apice dell’ipocrisia puritana) contro Wilde per sodomia “l’amore che non osa dire il suo nome”.’ È stato il primo legal thriller della storia, una “court comedy” alla Testimone d’accusa con parrucche ricciolute, diviso in tre atti e due tempi teatrali senza un attimo di tregua: corte di Londra, addì 1895.
I processi di Oscar Wilde, con documenti istruttori integrati a reperti letterari, durati circa due mesi e via, sono al centro di un testo che non riassume le cose che già più o meno sappiamo ma rivela molto di più sulle vere cause del linciaggio morale allo scrittore, cioè le connivenze politiche e le complicità sodomitiche di molti cittadini al di sopra di ogni sospetto. E i brani in cui Oscar, un bravissimo Giovanni Franzoni di straordinaria misura espressiva, parla dell’arte sono da antologia. Se nel primo di due tempi ci sono margini di humour e qualche tipico aforisma di mr. Wilde, poi la situazione precipita con la condanna che sarà causa della precoce morte poi a Parigi nel 1900: 12 persone al funerale, tra cui Andrè Gide che scriverà un libretto di memorie appassionante. Wilde da anni è nella testa e nel cuore del teatro dell’Elfo, fin dalla Ballata dal carcere di Reading con Orsini e la Marini, diretta da De Capitani.
La palla passa poi a Bruni e Frongia con cui si legge il Fantasma di Canterville e si vede un’ottima edizione di Salomè, mentre è prossima anche L’importanza di chiamarsi Ernesto con quel famoso gioco di parole per cui alla fine si dirà Franco (Ernesto e Onesto suonano simili in inglese). “I processi sono il tassello di un discorso su Wilde” dicono i registi Ferdinando Bruni e Francesco Frongia “vittima di una regale omofobia che aveva preparato l’agguato per dare una lezione esemplare che punisse tutti quei colpevoli il cui nome rimase nascosto o che, al contrario di Wilde, preferirono prendere il primo battello per Calais”. Nel corso della frettolosa istruttoria, due mesi in tutto, veniamo a conoscere i vizi di una società ipocrita e colonialista, in un oratorio laico con figure reali come Bernard Shaw o lo scrittore Frank Harris (che, udite udite, scrisse Cowboy da cui il film di Delmer Daves con Glenn Ford e Jack Lemmon, informazione di un attore informato, Filippo Quezel). Ma si travalica il senso del processo che portò alla dura condanna, è un rito teatrale, come dice Tony Kushner, l’autore di Angels in America, in cui si parla di arte, libertà, sesso e passione”. L’autore, decorato da Obama, è molto rappresentato, ha lavorato con la Fonda e la Chastain, ora sta riscrivendo niente meno che Carmen: certo la sua commedia, a rapida presa emotiva, risente della nuova visione del teatro di Brecht e Piscator e la battaglia tra realtà e finzione è affidata a personaggi che entrano ed escono dalla storia e la commentano. L’esercito vittoriano era pronto a sparare, c’era in ballo l’identificazione dell’uomo con l’artista, tanto che fu processata l’opera di Wilde, partendo dal Ritratto di Dorian Gray e questo è un lato importante della questione e riguarda la libertà del creatore. “Non c’è stato un altro processo così emblematico” dicono i registi “debuttò con Wilde la figura dell’omosessuale moderno, persona definita dalle sue tendenze. Era momento di clamori, con una nuova legge severa a causa di alcuni scandali, un bordello maschile (ricordate la stanza 43 di Proust?) in cui fu coinvolto il fratello di Alfred Douglas, nipote suicida della regina Vittoria sospetto di una relazione da segretario con il primo ministro nonché di essere Jack lo squartatore”.
Lo spettacolo che ha un alto interesse morale e civile, vede al centro, seduto sul titolo, Giovanni Franzoni, già passato per gli inferni di Bacon, sarà istruttivo e politico (Frost/Nixon), dove ciascuno dice la sua e l’azione si interrompe coi narratori: arrivano a testimoniare i ragazzacci disponibili alle “molestie”, gli under 30 Edoardo Chiabolotti, Ludovico D’Agostino e Filippo Quezel che caratterizzano assai bene se stessi e il contesto e che per l’autore dovrebbero portare “intimissimi” vittoriani e qui hanno una grottesca lingerie. Nel cast che non fa una grinza, ci sono anche Ciro Masella, Nicola Stravalaci, Riccardo Buffonini, Giuseppe Lanino, Giusto Cucchiarini, proseguendo una voglia dell’Elfo nello scoprire nuovi talenti.
Non a caso il pensiero si sposta a Pasolini: ogni riferimento non è puramente casuale, anche nell’inconscio sacrificale e in quel rapporto coi ragazzi che andava oltre il sesso. Dice Kaufman: “Mi interessava, date le diverse versione dei fatti, che la pièce che contenesse la molteplicità dei punti di vista”. Sir Wilde non volle fuggire tra le nebbie del canale anche se la condanna a due anni di lavori forzati era la sua morte civile e artistica. La moglie cambiò il cognome, gli passò 150 sterline al mese ma fu una grande vergogna, tanto che i beni di Wilde furono battuti all’asta e le sue commedie nel West End restarono in scena ma senza il nome dell’autore. Dice Frongia: “Ancora oggi il nipote di Wilde si chiama Holland, probabilmente riceve i diritti di autore di quel nonno che pagò il conto per tutti”.
Atti osceni (8 sedie d’epoca, 4 sbarre, 9 attori) sta al gay Wilde come L’istruttoria di Weiss sta agli ebrei della Shoah assassinati da una stessa forma di razzismo. “Wilde qui poco gaio, ma noi usiamo anche i suoi aforismi: nella prima parte del dibattimento lo scrittore affinò le sue armi da salotto. Alla base di tutto c’era il discorso sull’artista, venne processata un’opera letteraria”. Ed è molto wildiano che gli Elfi usino in colonna sonora God save the Queen eseguita dai Queen.
Atti osceni, prossimamente al Teatro dell’Elfo