Come”Guerre stellari”: la seconda trilogia degli Hobbit precede la prima. E mostra il fortissimo link tra libri e film
A volte i dettagli di un’opera racchiudono tutto l’insieme dell’opera stessa. Nel finale di Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate, Peter Jackson inquadra il dettaglio dell’anello magico che Bilbo Baggins tiene in mano. Fino a quel momento lo hobbit scassinatore è stato interpretato da Martin Freeman, ma nell’immagine ravvicinata si capisce – o forse si desidera? – che la mano è quella di un uomo più anziano. Infatti, nell’inquadratura successiva Bilbo ridiventa Ian Holm, l’attore che l’aveva interpretato (o, se volete, lo interpreterà) nella trilogia del Signore degli anelli. Qualcuno bussa alla porta, è lo stregone Gandalf, sta per cominciare la seconda avventura: quella in cui l’anello passerà a Frodo, il nipote di Bilbo, che lo distruggerà; quella che abbiamo visto al cinema negli anni 2001, 2002, 2003.
Una trilogia che si aggancia nel finale a un’altra trilogia, realizzata prima ma cronologicamente e narrativamente successiva, è un déjà vu: avveniva la stessa cosa alla fine di Guerre stellari- Episodio III – La vendetta dei Sith (2005), con i due soli che si ricollegavano all’inizio del primissimo Guerre stellari (1977). Jackson e Lucas hanno condiviso questo bizzarro destino: realizzare per prima la trilogia che, nel succedersi degli eventi, doveva essere la seconda. Lucas ora proseguirà (Star Wars Episodio VII – Il risveglio della forza, diretto da J.J. Abrams, è fin d’ora il film più atteso del 2015) e può permetterselo, perché quella è farina del suo sacco e può andare avanti all’infinito.
Jackson invece ha concluso i romanzi del ciclo, e, a meno di pescare negli universi paralleli del mondo tolkieniano (Il Silmarillion, I figli di Hurin o i tanti racconti incompiuti) si fermerà qui. È quindi il momento di un bilancio, non tanto sulla bellezza dei film (che la trilogia del Signore degli anelli sia complessivamente più bella di quella ricavata da Lo Hobbit è abbastanza indiscutibile) quanto sul rapporto davvero unico instauratosi tra un cineasta e uno scrittore.
Partiamo da un fatto, ipotetico ma neanche tanto: se Jackson avesse seguito cronologicamente i romanzi e le vicende da loro narrate, non avrebbe mai fatto Lo Hobbit così com’è. Probabilmente – anche per motivi produttivi – avrebbe rispettato la lettera e lo spirito di un romanzo che, nell’edizione italiana più recente (quella annotata di Bompiani, 2012), è lungo meno di 400 pagine ed è sostanzialmente un magnifico racconto per ragazzi. Avrebbe fatto, insomma, un film “normale”.
E molti appassionati – compreso chi scrive – pensarono che il regista fosse stato colto da un attacco di megalomania quando annunciò che anche Lo Hobbit sarebbe stata una saga di quasi 9 ore. Vista la saga, bisogna ammettere che Jackson ha fatto un’altra cosa: ha introiettato la seconda trilogia nella prima, realizzando un Hobbit per così dire “consapevole” del proprio seguito. È come se i film (non i personaggi, se non alcuni di loro: forse Gandalf, sicuramente Galadriel) sapessero già cosa accadrà nei film a venire.
Questo permette a Jackson e alle sue sceneggiatrici, Fran Walsh e Philippa Boyens, numerose licenze: la più clamorosa è il “riciclaggio” dell’elfo Legolas, assente nel romanzo, e l’invenzione ex novo della guerriera elfa Tauriel. Ma ce ne sono di più piccole e affascinanti, come la scena della Battaglia delle cinque armate in cui Galadriel e Saruman combattono già contro i nove Nazgul, i servitori dell’anello. Saruman esce di scena dicendo “lasciate Sauron a me”, ed è una strizzata d’occhi divertente, sapendo come andrà a finire!
Jackson, Walsh e Boyens hanno tagliato e aggiunto, rispetto all’universo di Tolkien, ma sono riusciti a non scontentare la maggioranza dei fans (che sono molto agguerriti e talvolta pedanti!) perché sono fans essi stessi, e in quello spirito hanno lavorato. Hanno dimostrato una conoscenza dell’universo tolkieniano degna di filologi e studiosi.
C’è da scommettere che riderebbero come pazzi leggendo certi commenti sull’inchiesta romana sui legami tra politica e malavita, nei quali il “mondo di mezzo” teorizzato da Carminati & soci viene confuso con la “terra di mezzo”, la Middle Earth, in cui si svolgono i loro film. Da bravo (?) fascista cresciuto negli anni ’70, è possibile che Carminati abbia letto e frainteso Tolkien come molti suoi camerati, ma basta leggere le sue intercettazioni per capire che il suo “mondo di mezzo” non c’entra nulla con hobbit, nani ed elfi.
C’è cascato anche Roberto Saviano, su Repubblica, insieme con molti altri. Per fare giustizia di simili corbellerie leggere comunque Emanuele Trevi, che in un bellissimo articolo uscito sul Corriere della sera il 7 dicembre 2014 libera Tolkien da ogni responsabilità e ipotizza piuttosto, come libro da comodino dell’ex Nar, Il re del mondo di René Guenon. Dal quale difficilmente si farà un film, figurarsi due trilogie.
Alberto Crespi
Uno scontro epico, di folle ritmo ed effetti irresistibili
Sugli abitanti di Pontelagolungo sta per abbattersi l’apocalisse, sotto forma di un drago dalla lunga coda e dalle fauci di fuoco. Ma la freccia brunita scoccata da Bard l’Arciere, principe degli uomini dal cuore buono e dalla mira infallibile, riesce a individuare l’unico punto vulnerabile in quel corpo enorme e squamoso, apparentemente invincibile. E uccide il mostro. Uomini, elfi e nani possono tirare un sospiro di sollievo. Ma la gioia è destinata a rivelarsi effimera. Ben più temibili minacce si profilano all’orizzonte.
Mentre il nano Thorin Scudodiquercia sprofonda in un pericoloso delirio di onnipotenza, chiuso dentro la Montagna Solitaria in compagnia di un’immensa quantità di oro e di un’altrettanto grande avidità, nella remota fortezza di Dol Guldur uno sterminato esercito di orchi e mannari si sta radunando per rispondere agli ordini del perfido Sauron, il signore del Male che nell’ombra ha già cominciato a tessere la sua trama di sangue e orrore. Quella che si dispiegherà compiutamente nella trilogia del Signore degli Anelli, di cui Lo Hobbit rappresenta solo l’antefatto.
L’ultimo viaggio di Peter Jackson nella Terra di Mezzo si è così concluso, con un certo divertimento, bisogna ammetterlo, ma soprattutto un gran senso di liberazione. Dopo una noiosissima prima puntata, e una seconda gradevole ma mai veramente appassionante, siamo arrivati a questo terzo episodio un po’ sospettosi e stanchi: ma Jackson ci ha riservato una piacevole sorpresa, un film dal ritmo forsennato e dagli effetti speciali irresistibili, contraddistinto da una regia barocca, avvolgente, a tratti stupefacente per forza creativa ed energia visiva (come nello psichedelico duello fra Galadriel e il Negromante, sullo sfondo delle nere rocce di Dol Guldur).
Tutto bene quindi? Sì e no. Perché un ragazzino che vedesse per primo questo film, senza conoscere la trilogia del Signore degli Anelli, e senza aver letto una pagina dei romanzi di Tolkien, potrebbe immaginare un universo fatto esclusivamente di battaglie, fughe e duelli, scontri feroci e voli d’uccello, roghi, crolli, cadute, corse. Ed effetti speciali. Un universo epico, certo, dove il mito va a braccetto con eroismo e leggenda, ma il tutto è opportunamente tritato e amalgamato, banalizzato e omogeneizzato per rendere il prodotto adatto al palato del pubblico medio, dai 7 ai 97 anni.
Insomma, quel ragazzino finirebbe con l’ignorare completamente quella che è la vera magnifica sostanza dei libri di Tolkien – e anche della prima trilogia firmata da Jackson – un’esplorazione affascinante e terrorizzante degli infiniti meandri del cuore umano, lungo l’incerto confine fra bene e male, odio e amore, verità e menzogna.
Marina Visentin