A quarant’anni dalla morte, il museo della Scala dedica una mostra, curata dalla scenografa, agli anni scaligeri decisivi per la costruzione artistica della divina
«Ne ho timore», confido all’amico e collega Mattia Palma quando mi propone di intervistarla. Ne ho ben donde: Margherita Palli, nome “sacro” della scenografia italiana per la scena, ha lavorato con i più grandi.
Ovvero? Luca Ronconi (sua la firma di numerose scene per opere liriche e di prosa), Liliana Cavani, Avogadro, e poi il lanciatissimo Rifici, e pre il debutto in regia teatrale di Sokurov (c’è ancora lei dietro all’impianto visivo di GO.GO.GO, che a Milano abbiamo visto in Triennale).
Mi era capitato di scrivere di lei in occasione della bella mostra dedicata a Ronconi (sua la curatela) senza però conoscerla personalmente. «È deliziosa», mi dice Mattia, «sa un sacco di cose, ma ne parla con assoluta tranquillità». Sarà, penso tra me. L’intervista è concentrata sulla mostra – sempre a cura di Palli – che il Museo della Scala, a quarant’anni dalla morte, dedica a Maria Callas e agli anni d’oro che l’artista ha vissuto nel gotha lombardo della lirica, aperta al pubblico dal 15 settembre.
Ho un corredo d’informazioni abbastanza variegato sulla cantante greca: un ventaglio che spazia dal gossip puro, dalla tenia dentro coppe di champagne ai lavori più importanti sulla scena – e, lo ammetto, la ricostruita agiografia dell’amico e sodale Zeffirelli, Callas Forever, la trovo straordinaria, così kitsch eppure così delicata…
Nella mostra, però, non c’è spazio per questo. Lo chiarisce subito Palli quando mi accoglie nella sua bellissima casa fatta di vetrate e creatività (con me c’è ancora Mattia che per la mostra ha curato i testi): «Non ci interessa il gossip. ‘Lei grassa, lei magra…’ volevamo uscire da queste dinamiche». Con l’obiettivo di? «Raccontare la sua trasformazione artistica all’interno della Scala».
«È chiaro: il personaggio si presta al pettegolezzo, ma noi siamo partiti dagli abiti, dalla storia degli spettacoli in cui appaiono, dalle influenze che registi e scenografi hanno avuto su di lei». Emerge in maniera evidente la contaminazioni con altri autori: come Visconti, che alla Scala l’ha diretta in cinque opere, inclusa una memorabile Traviata del ’56, con Carlo Maria Giulini alla direzione dell’orchestra.
«Visconti è colui che la ‘inventa’. È lui a portarla dalla Biki (Elvira Leonardi Bouyeure, sarta e stilista milanese di enorme tendenza che ridefinisce lo stile della Callas, ndr), nei musei più importanti, è ancora lui a regalarle tutti i riferimenti estetici e culturali che lei ancora non possedeva».
Un pigmalione. «Credo che lei fosse molto docile nell’accettare questi consigli. Perlomeno con Visconti. Forgia il personaggio Callas, la inserisce in una Milano, quella degli anni ’50, che ha un gusto e un’estetica pari – se non superiore – a quelli di New York».
«Abiti, fotografie, pannelli, bozzetti… tutto dell’archivio Scala. A ogni costume è associato il contenuto dello spettacolo, con testi che saranno collage di recensioni e articoli dell’epoca: Franco Abbiati, Eugenio Gara, Montale, Fedele d’Amico…» Tutto per fare emergere l’atmosfera dell’epoca. Con una grande diva a protezione: «L’abbiamo definita ‘avatar’. Era un centro gravitazionale: in quel momento era un catalizzatore importante, per Milano. Herbert von Karajan, Victor de Sabata, Gaspare Spontini, Tatiana Pavlova» Una sorta di capo di comunità. «Forse una motivazione importante per continuare a ricordare anche direttori d’orchestra, registi e musicisti che con il tempo rischiano di essere dimenticati».
C’è stata, nella lirica o nella prosa, un personaggio altrettanto importante? «No. O meglio: forse Rajna Kabaivanska. Adorava Ronconi (i due hanno fatto insieme L’ Affaire Makropoulos, tra gli altri, ndr), e credo che per lui fosse la cantante ideale. Però lì l’eleganza, lo charme erano innati. Con la Callas è diverso. La Callas è una trasformazione».
Quattordici abiti in mostra. Ce n’è uno che ha una storia particolare? «Sono tutti belli, ma per quello di Anna Bolena (diretta da Visconti nel 1957, Gianandrea Gavazzeni direttore d’orchestra), abbiamo pensato a qualcosa di pazzesco. In velluto blu, con la pelliccia… Non si vedrà da vicino: lo guarderemo da lontano, con i cannocchialini da teatro. Faremo vedere degli abiti che nessuno ha mai visto da vicino: così si coglie come questi abiti siano perfetti da lontano, ma ancora di più quando ci si avvicina».
Margherita, ma per una scenografa affidarsi così tanto ai costumi cosa comporta? «Ho fatto poche volte i costumi, per Daniel Ezralow – ma erano costumi-scultura, mi divertivo. Mi piace soprattutto allestire le mostre – è così che inizio la mia carriera in Triennale con Pierluigi Nicolin». Perché ti piace? «Mi diverte molto. Mi piace studiare, come per uno spettacolo. Qui poi c’è stato un bel lavoro di squadra: con Mattia, Francesca Molteni che ha curato la realizzazione di un bel video, la mia assistente storica Valentina Dellavia… uno scambio continuo».
Quante volte vi siete incontrate? «Molte. Ma è inevitabile: sennò rischi di fare l’esposizione fine a se stessa, la ‘bella mostra’. Che senso avrebbe?».
Mentre il nostro incontro volge al termine, fuori si scatena il diluvio. I gatti di Margherita si azzuffano tra loro con dinamiche che, a confronto, Cats è un convento di educande. Ci salutiamo, ho vinto la mia timidezza. E Margherita ci tiene a precisare: «Gli abiti non si potranno toccare. Li abbiamo protetti». Da chi? «Dai melomani. Pare abbiano l’abitudine di tagliuzzare e portare via».
Mi giro verso Mattia. Annuisce.
Immagini: © Brescia/Amisano – Teatro alla Scala