Brava la protagonista Belleudi, ma il revival di Flashdance è fiaccato da una regia debole. E da scelte di casting poco credibili
Ancora gli anni ’80, ancora un film di culto, ancora un revival. Per la propria produzione 2017 destinata ad occupare il palco di Piazza Wagner fino a S. Silvestro la Stage dei Navigli torna su sentieri già percorsi con modesto successo poco più di un lustro fa.
Quella prima edizione peccava di un libretto pieno di magagne, con la coprotagonista che rubava costantemente la scena all’attrice principale, e di un allestimento italiano costretto a ricalcare pedissequamente l’originale del 2008 nel West End.
Oggi c’è a disposizione una rinnovata elaborazione britannica del copione e la speranza di cavalcare l’onda del successo e dell’effetto nostalgia di recenti produzioni cine-musicali-’70-‘80 come Dirty Dancing, La Febbre del Sabato Sera o l’inossidabile Grease.
Eccoci dunque di fronte ancora una volta alle vicende della bella saldatrice Alex che di giorno lavora in fabbrica e di notte si esibisce in un club di Pittsburgh col sogno non segreto di poter un giorno accedere ai corsi della “vera danza”, quella insegnata all’Accademia di Danza.
Ancora accanto a lei anche il figlio contestatore del padrone delle ferriere e intorno a loro il tappeto sonoro di musiche entrate nella cultura pop di due intere generazioni da What a feeling! di Moroder a Maniac di Sembello per non dire dell’italica Gloria firmata Tozzi. Questa volta la coppia è composta da una ex di Amici, la laziale Valeria Belleudi, stessi riccioli scomposti della Jennifer Beals sullo schermo e tratti somatici assai simili, e dal toscano Lorenzo Tognocchi con esperienze al Bagaglino e nei Parchi Tematici.
Per entrambi è l’occasione di uscire dalla linea del coro e affermarsi nel ruolo di star del nostro panorama nazionale. E i talenti per farcela non mancano a nessuno dei due. Lei, che è convincente nel canto e soprattutto nelle coreografie, avrà modo nel tempo di migliorarsi nella recitazione, lui ha un’intonazione perfetta con eccellenti passaggi di tonalità, ma ancora non si dimostra in grado di passare dal “cantare una canzone” a “interpretare una canzone”.
C’è però da dire che non è stato aiutato a compiere tale passo da una regia più attenta a confezionare lo spettacolo che non a concentrarsi sulle psicologie dei personaggi. È comunque una coppia che può incontrare il favore di quel pubblico femminile 35-55 di istruzione medio-alta su cui la produzione si è concentrata quando ha creando un lavoro buono per tutte le stagioni, perfettamente “neutro” sotto tutti i punti di vista.
Tant’è che proprio nella neutralità del musical stanno per intero pregi e difetti. La scenografia piuttosto astratta ma funzionale (firmata da Gabriele Moreschi) è composta geometricamente di scale e praticabili adatti a creare due distinti e distanti livelli di azione e due autonomi ambienti ai lati del palco principale utilizzabili in modi diversi.
Il light design di Francesco Vignati illumina a dovere l’azione, senza né esaltarla né affossarla. Le musiche originali di Robbie Roth e dei vari song preesistenti sono restituite attraverso registrazioni, ma con perfetti calibri tra voci e volumi sonori grazie alla perizia di Armando Vertullo. Le coreografie di Marco Bebbu sono adeguatamente energetiche e ottimamente rese dall’ensemble, però mancano di un’identità creativa precisa che indirizzi le vicende in una precisa direzione narrativa.
Anche la scelta del cast è complessivamente ben calibrata, con alcune considerazioni da fare al riguardo. Date le dimensioni del teatro Nazionale, il numero di elementi dell’ensemble rimane un po’ esiguo, e anche se composto da ottimi elementi (un nome per tutti e solo come esempio: Giovanni Abbracciavento) alla fine gli interpreti risultano pochi, sperduti e troppo isolati su un palco tanto vasto.
In parallelo è questa l’occasione giusta per accennare a un altro aspetto specifico del musical italiano, quello di scritturare interpreti anagraficamente non adeguati al proprio personaggio. Se è un cinquantenne come Roberto Vandelli chiamato a interpretare Harry, il gestore del locale in cui si esibisce Alex, dovrebbe essergli correlata anche l’età del suo rivale C.C. che intende aprire un locale concorrente e per questo prova rubargli le ragazze, ma Michel Altieri non è propriamente l’attore adatto in tal ruolo.
Del resto non funziona neppure il ricorso al trucco e parrucco quando la quarantenne Altea Russo viene vistosamente truccata da ottantenne per la parte di Hanna, l’angelo custode della protagonista, e seppur vivacissima caratterista capace di strappare applausi ogni due battute appare pur sempre come una quarantenne truccata da ottantenne.
La somma degli elementi non restituisce dunque nel complesso alcun sapore degli anni ’80, e neppure li mette in discussione con critiche o riflessioni sociali su un periodo ormai ampiamente storicizzabile e storicizzato.
Dell’adorato film originale rimane qui il maglione abbondante che lascia scoperta una spalla di Alex, rimane la posa iconica arcuata appoggiata alla sedia sotto la cascata d’acqua, ma non rimane di più.
Siamo davvero a Pittsburgh? Proprio in quel decennio? Qui stiamo assistendo a storie che potrebbero aver luogo a qualsiasi latitudine e in qualsiasi momento dello scorso secolo o anche di quello attuale, e non basta a giustificazione dire che le favole moderne sono senza una collocazione geografica e fuori dal tempo… gli allestimenti dei musical anglosassoni ce l’hanno dimostrato in mille occasioni.
Dobbiamo così solo accontentarci uno spettacolo assolutamente gradevole nelle sue forme astratte, ma senza un’identità specifica dove la Stage – come sua abitudine – non fa mancare la qualità e il livello alto dell’allestimento ma in cui oggi forse più di tempi passati sembra puntare a far quadrare i conti sui libri contabili, con l’obiettivo in un buon attivo.
Gli stessi investimenti avrebbero forse portato a un risultato artisticamente più convincente se la regia non fosse stata affidata nelle mani di una professionista spesso sopravvalutata come Chiara Noschese che nella foga dei sentimenti e dei sentimentalismi non si accorge incomprensibilmente di errori talora elementari.
Tacendo dell’uso non sempre comprensibile delle sue proiezioni (cosa vogliono esprimere le gigantografie dei primi piani in B/N di alcuni personaggi resi simili a immagini funebri sulle lapidi?) si può citare come esempio il modo in cui ha montato la scena del duetto d’addio della coppia nel prefinale dello spettacolo quando la Noschese colloca i due innamorati nella semioscurità agli estremi opposti del proscenio, e così finisce per separarli tanto fisicamente quanto nelle parole e ne vanifica così intensità e drammaticità con decine di metri distanza da dove emerge solo la vacuità della scena.
Video di proprietà di Callassino, foto del sito artslife.com
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