Quarto appuntamento con la rubrica “Scoprendo Milano”: ogni mese, la storia di un luogo, della sua evoluzione architettonica, del suo ruolo nelle trasformazioni della città.
Frank Lloyd Wright l’avrebbe definita la stazione ferroviaria più bella del mondo. Il condizionale è d’obbligo ma ai Milanesi piace davvero immaginare che il maestro del Decò americano si sia tolto il cappello sotto le grandi volte della Centrale. Oggi l’ammirazione di Wright ci può sembrare scontata ma non tutti hanno sempre condiviso lo stesso entusiasmo. Nel ‘43, per esempio, Alberto Savinio guarda la stazione e scrive: “Essa parla la lingua di Gabriele d’Annunzio. […] L’uomo non aveva ancora capito che le stesse cose si possono dire con parole più piane e magari non dirle affatto.”
La storia della stazione Centrale non inizia in piazza Duca d’Aosta ma settecento metri più a sud, nei pressi dell’odierna piazza della Repubblica. La stazione fu inaugurata pochi anni dopo l’Unità e sostituiva due scali minori. A una prima occhiata, l’edificio della vecchia Centrale era di dimensioni paragonabili a quello odierno ma differiva sostanzialmente per la disposizione dei binari. Si trattava infatti di una stazione passante, con sei tracciati paralleli alla stecca del fabbricato viaggiatori.
Già allora, la stazione centrale di Milano era la stazione più grande d’Italia e nel giro di pochi decenni, la crescita del traffico ferroviario e l’apertura dei trafori del Gottardo e del Sempione configurarono lo scalo milanese come una porta privilegiata per l’intera Penisola. Quando il traffico rese necessario un potenziamento dello scalo, la stazione era già parte integrante del tessuto urbano e la configurazione passante rendeva difficile l’ampliamento. Nel 1906, iniziarono dunque i lavori per un riordino completo del sistema ferroviario milanese, nel contesto del quale fu pianificata la costruzione di una nuova stazione centrale, adatta alle esigenze del nuovo secolo. Il nuovo scalo sarebbe sorto sul terreno un tempo occupato dal vecchio Trotter, il primo campo dei rossoneri.
Al dicembre dello stesso anno risale il primo concorso architettonico per la nuova stazione ma la giuria, presieduta da Camillo Boito, non assegnò né il primo né il secondo premio. Un nuovo concorso, bandito cinque anni più tardi, ebbe esito più fortunato: furono premiate quattro proposte ed emerse vincitore il progetto “In motu vita” di Ulisse Stacchini. Prima di passare alla costruzione, però, le ferrovie richiesero alcune varianti sostanziali che impegnarono l’architetto negli anni successivi. Lo scoppio della prima guerra mondiale fu un’ulteriore motivo di ritardi e il progetto definitivo, il quarto, vide la luce solamente nel 1924.
La stazione fu finalmente inaugurata il primo luglio 1931. A livello compositivo, il grande edificio si pone in linea con le grandi stazioni dell’epoca. In particolare, due imponenti gallerie parallele sono congiunte da un massiccio corpo intermedio, nel quale trovano posto l’atrio e i servizi. Oggi alcuni di questi spazi, le sale d’aspetto e il deposito bagagli, sono ancora riconoscibili sebbene abbiano perso la loro funzione in favore dei negozi. Dalla stecca dello stabile viaggiatori, si protendono poi due ali che stringono lateralmente l’insieme delle banchine. Queste sono caratterizzate dalle monumentali volte di acciaio e vetro opera dell’ingegner Fava. Gli archi a tre cerniere sono il sorprendente contrappunto al pesante edificio lapideo “in convinto stile assiro-lombardo” (Daverio) di Stacchini.
Nell’ala est, presso il binario ventuno, trovano posto anche una piccola cappella e il padiglione reale, una struttura su due livelli progettata per l’attesa dei regnanti, della loro famiglia e della corte. Il binario ventuno, però, non è solo noto per i ricchi saloni di casa Savoia ma anche per il suo tragico legame con la Shoah. Sotto il livello dei binari oggi in uso, esiste infatti un’altra stazione, pensata originariamente per il carico e lo scarico dei vagoni postali. Tramite un “montavagoni”, le vetture postali erano issate al livello superiore, dove potevano essere agganciate ai treni senza interferire con il flusso dei passeggeri. Nel biennio tra il ‘43 e il ‘45, centinaia di deportati furono caricati con questo sistema su vagoni merci alla volta dei campi di concentramento e di sterminio. Dal 2013, una visita al memoriale della Shoah, (piazza Edmond J. Safra) permette di ricordare le vittime dello sterminio negli spazi di servizio sotto al binario ventuno, un’esperienza museale toccante e preziosa.
I vent’anni di gestazione della stazione Centrale furono un periodo fondamentale per l’evoluzione dell’architettura italiana: alla fine degli anni venti, infatti, risalgono le prime opere di Terragni e nella decade successiva il dibattito architettonico si cementò nel confronto tra Razionalisti e Novecentisti: i primi più vicini al modernismo internazionale, i secondi fautori di un nuovo classicismo, semplificato e storicista.
Il progetto di Stacchini sembra estraneo a questa dialettica: è frutto infatti di una sensibilità che entrambe le correnti si proponevano di superare. La stazione centrale nacque dunque come un’infrastruttura all’avanguardia, poco si era evoluto a livello funzionale, ma il suo aspetto non poteva che generare reazioni ambivalenti: l’opulenza del progetto era insieme mozzafiato e anacronistica. A questo proposito basti ricordare come, solo tre anni più tardi, il “Gruppo Toscano” di Michelucci avrebbe inaugurato la stazione di Santa Maria Novella, capolavoro del razionalismo italiano. Un confronto tra la Centrale e la stazione fiorentina rende bene l’abisso tra la sensibilità delle nuove generazioni e quella del sessantenne Stacchini.
Il rifiuto del linguaggio “dannunziano” di Stacchini è particolarmente vivo tra i protagonisti dell’architettura milanese del secondo dopoguerra. Nel ‘52, viene indetto un nuovo concorso architettonico per la risistemazione della stazione Centrale: in particolare, è giudicato problematico il dislivello tra la strada e le banchine (7,40 m). In quell’anno si installano infatti le prime scale mobili e si chiedono agli architetti soluzioni per migliorare il flusso dei passeggeri. La posta in gioco, però, era l’intera ridefinizione dello scalo: dopo Firenze, anche Roma si era dotata nel ‘50 di una nuova modernissima stazione Termini.
Lo iato tra la rampante crescita economica e l’aspetto obsoleto della Centrale motivò i progettisti a soluzioni spesso radicali, che bene esprimono il disagio nei confronti del grande monumento. Vittoriano Viganò, per esempio, propone la completa demolizione dell’edificio di Stacchini, da sostituirsi con una enorme sala voltata che riecheggiasse le arcate d’acciaio di Fava. Ad aggiudicarsi il concorso furono Giulio Minoletti ed Eugenio Gentili Tedeschi. Minoletti aveva già partecipato al concorso per la stazione fiorentina e immagina per la Centrale una nuova stecca di uffici, un grande monolito di vetro che sostituisse la galleria delle carrozze, dotando così la stazione di un fronte in linea con gli ideali del modernismo internazionale. Nella variante più ardita, la stecca si sarebbe sviluppata per quarantuno piani. Una strada sopraelevata avrebbe inoltre risolto il problema del dislivello, mentre una grande autorimessa avrebbe garantito il funzionamento degli uffici. La stazione così “corretta” sarebbe diventata una porta degna del nuovo centro direzionale, per il quale si nutrivano ancora grandi aspettative. Il progetto fu rimaneggiato a più riprese fino al ‘60 e nell’ultima stesura prevedeva persino l’integrazione di un eliporto. A quel punto però, la decisione di investire su Porta Garibaldi si sostituì a ogni pretesa di redimere la Centrale.
A partire dalla fine degli anni ‘50, infatti, l’approccio degli architetti milanesi nei confronti di Stacchini aveva iniziato a mitigarsi. Sono gli anni dalla “Casabella Continuità” di Rogers e il modernismo iconoclasta lascia posto a soluzioni più rispettose del patrimonio costruito. La stazione Centrale si dimostrava all’altezza delle esigenze della Milano del XX secolo e divenne anzi un simbolo della città. Agli occhi di Dino Buzzati, le arcate di Fava sono un monumento alla grandezza e alla desolazione della metropoli. In una sua tavola, la stazione è trasfigurata: sotto le volte altissime, un individuo solitario rincorre un treno-condominio. Si tratta forse di uno dei treni notturni a lunghissima percorrenza che furono il motore del grande successo economico del capoluogo lombardo: l’emigrazione dal Mezzogiorno verso le città industriali del Nord trovava lì il suo snodo principale. Ne I girasoli di De Sica, la stazione Centrale diventa la casa comune di una città di individui solitari, il simbolo della nostalgia e delle speranze di chi lascia la provincia per ingrossare il “conglomerato di eremiti” che Montale vedeva in Milano.
Il XXI secolo porta a un generale ripensamento dello spazio delle grandi stazioni italiane: tra il 2005 e il 2010, anche la stazione Centrale subisce lavori di restauro e riorganizzazione interna che la trasformano a tutti gli effetti in una galleria commerciale. Dipinti e mosaici sono tornati all’antico splendore ma le modifiche alla circolazione interna sembrano giovare più alle esigenze dei negozi che all’orientamento dei viaggiatori. La stazione rinnovata è dedicata alla santa Francesca Cabrini, patrona dei migranti, una scelta che assume un nuovo significato alla luce degli eventi di cronaca recenti. La piramide appesa sopra l’ingresso principale è l’incrocio ideale di quattrocentomila viaggiatori che ogni giorno transitano per la stazione, chi per lavoro, chi per piacere, chi in cerca di una vita migliore. Nonostante le critiche, la pesante architettura di pietra ha superato la prova del tempo meglio di tante opere moderniste. Oggi, con il distacco dato dagli anni, possiamo perdonare Stacchini per non aver letto Le Corbusier e possiamo persino accettare che Frank Lloyd Wright non sia mai venuto a Milano. Una cosa è certa: in piazza Duca d’Aosta Wright si sarebbe tolto il cappello.