Un grande Michael Smiley con la brava Evanna Lynch in “My Name is Emily”, film testamento del 43enne regista irlandese, morto pochi giorni fa di Sla, che l’ha girato mentre era già paralizzato e non poteva parlare. Rimasta orfana di madre e col padre sconvolto dalla perdita e rinchiuso in un istituto psichiatrico, la protagonista assolda Arden, suo compagno di scuola, per mettersi in strada e far fuggire il genitore con loro. Un’avventurosa, intelligente riflessione sulla vita e la morte, l’adolescenza e la verità, realizzata con il sistema del crowdfunding, tra i finanziatori Colin Farrell e Alan Rickman
Arriva nelle sale italiane My Name is Emily, primo lungometraggio dello scrittore e regista irlandese Simon Fitzmaurice, scomparso all’età di 43 anni solo pochi giorni fa. Il film riflette sulla vita e la morte, sulla verità e sui legami in un road movie adolescenziale a bordo di una vecchia Renault gialla. La protagonista è Emily (Evanna Lynch, già nota per il suo ruolo di Luna Lovegood in Harry Potter e l’ordine della fenice), sua è la voce narrante che apre il racconto, sua la difficile storia di cui veniamo man mano a conoscenza, flashback dopo flashback.
Emily è una ragazza di sedici anni, porta il nome di un devastante uragano e viene definita dai coetanei weird, strana, bizzarra. Questo lato del suo carattere si accentua dopo la morte della madre per un incidente stradale e la conseguente depressione del padre (interpretato da un grande Michael Smiley), che passa gradualmente da genitore freak a matto da internare. Il tema della morte è molto presente nella sceneggiatura di Fitzmaurice e riecheggia con forza in alcune parole del voice over, da cui emerge anche un certo gusto per il citazionismo, come “se ti nascondi alla morte, ti nascondi alla vita”, o quando, per descrivere un innamoramento si dice “ti senti vivo e morto allo stesso tempo”. La riflessione non va mai troppo a fondo, resta sempre più un gioco con le parole, uno sfondo per dare profondità alla backstory della protagonista, ma nonostante ciò attorno al film aleggia una strana amarezza.
Il regista stesso dice di aver voluto raccontare una storia in cui si crede nella “possibilità di sopportare le difficoltà che la vita ti scaglia addosso e nella capacità di risollevarsi, di elaborare tutto ciò che abbiamo o ci resta senza essere annientati dalla tristezza e dalla perdita”. Infatti l’avventura di Emily comincia quando la ragazza chiede ad un compagno di classe appena conosciuto, Arden (George Webster), di accompagnarla nell’istituto psichiatrico dove è rinchiuso il padre per liberarlo e fuggire insieme. L’evoluzione della storia da questo punto in poi è classica, tipica di molti altri road movie: i due giovani protagonisti vivono piccoli imprevisti lungo la strada, si perdono, si ritrovano, fanno incontri pericolosi, passano attraverso paesaggi spettacolari, si confidano l’un l’altra fino ad arrivare a una risoluzione che all’inizio del viaggio non potevano immaginare.
La vera forza di quest’opera sta nella tenacia del regista che è riuscito a portare a termine il suo lavoro nonostante le difficoltà, essendo completamente paralizzato e non potendo parlare a causa della SLA che l’aveva colpito già nel 2008. Il risultato è tanto più sorprendente se si pensa al fatto che la realizzazione del film è stata finanziata solo da un crowdfunding cui hanno partecipato, tra gli altri, anche attori molto noti come Alan Rickman e Colin Farrell. Una nota stonata è data dal commento musicale, firmato dal compositore Stephen McKeon, che risulta a tratti troppo invadente e insieme al voice over non lascia i giusti spazi di silenzio ad alcuni passaggi del film, che avrebbero potuto essere più potenti.
My Name is Emily, di Simon Fitzmaurice, con Evanna Lynch, Michael Smiley, George Webster, Barry McGovern, Martin McCann