L’anno prossimo saranno cinquant’anni dal fatidico 1968. Tempo di bilanci, anche sul campo della storia dell’arte.
«Tra il 1965 e il 1975 si scatena, in tutto l’Occidente, una tempesta perfetta di rabbia e creatività, che investe, una dopo l’altra, tutte le forme espressive». A parlare è l’artista (e grafico, illustratore, editore) Matteo Guarnaccia che così definisce bene non solo lo spirito che si avvertiva in quel decennio ma circoscrive altrettanto bene anche i tempi di quella rottura. In effetti il Sessantotto, di cui si celebrerà l’anno prossimo il cinquantenario, non è che l’esplosione politica di un fenomeno di disagio e insofferenza che attraversa tutto il mondo occidentale già da diversi anni.
Nel 1968 in Europa – a Parigi prima, in tutto il continente immediatamente dopo – la delusione per una società fortemente dominata dal modello americano, consumista, alienante, conformista, fascisteggiante e, con l’aggressione in Vietnam, dichiaratamente guerrafondaio, provocò una ribellione che ebbe nella protesta giovanile e studentesca la sua espressione più creativa e violenta. In Italia alle occupazioni delle scuole e delle università fece immediatamente seguito la protesta operaia, con un movimento che rivoltò anche una società profondamente provinciale e arretrata.
E nel mondo dell’arte e della creatività che cosa successe?
Cerca di rispondere a questa domanda una mostra in corso a Milano, Arte ribelle. Artisti e gruppi dal Sessantotto (a Palazzo delle Stelline fino al 9 dicembre). «Definire i confini di quel movimento è difficilissimo. Il titolo della mostra è sicuramente seduttivo, ma al momento di scegliere quale sia l’elemento unificatore delle immagini che ci vengono in mente di quel decennio, si rischia di rimanere in un territorio nebuloso. L’ambito linguistico e creativo della ribellione è sentimentalmente riconosciuto da tutti, ma è al contempo razionalmente confuso», dice Marco Meneguzzo, curatore della mostra. Ed è senza dubbio una mostra difficile da realizzare. Meneguzzo vi è riuscito con onestà esemplare dichiarandone gli ovvi limiti.
Prendere in considerazione tutte le sfaccettature di quel decennio sarebbe stato pressoché impossibile o avrebbe rischiato di generare un kolossal senza coerenza. Meneguzzo si concentra quindi sulle espressioni che si sono sviluppate tra Roma e Milano nei due filoni che più di tutti hanno influenzato l’arte di quegli anni: quello figurativo e quello concettuale. La scommessa è riuscita, e nel grande salone dell’esposizione si intrecciano opere che nella loro palese diversità manifestano un punto di vista comune. E molto potente: la ricerca di un nuovo linguaggio.
E nuovi materiali. Acrilici, vernici a spruzzo, fotocopie, fotografia – allora ancora un mezzo “minore” – tadzebao, striscioni.
I temi più dichiaratamente politici li realizzano due artisti romani che di politica si disinteressavano: Mario Schifano e Franco Angeli. Ma la ricerca più coerente in definitiva la facevano gli artisti concettuali che cercavano una chiave di comunicazione “alternativa”. Termine assai amato all’epoca. Fernando De Filippi, più consapevolmente, che con i suoi striscioni interveniva “attivamente” in chiave politica. La sua opera Sostituzione, 24 foto della trasformazione dell’artista in Lenin, che oggi con photoshop sarebbe un gioco da ragazzi, esprimeva il piacere del gioco e la necessità di un’espressività diversa. Come i film di Baratella o i misteriosi, epidittici, lavori di Baruchello. Come gli esperimenti di Gianni Pettena, Vincenzo Agnetti, Emilio Isgrò.
Gli artisti insieme a un nuovo modo di esprimersi cercano fortemente un ruolo diverso all’interno di un sistema – quello delle gallerie, delle mostre, dei collezionisti, delle espressioni più tipiche del mondo dell’arte – vissuto con sempre maggiore intolleranza. Quello che più si vuole cambiare, e che si definisce con precisione nel 1968, è soprattutto il ruolo politico dell’artista. La stessa definizione di artista si modifica. Si preferisce “operatore visivo”, termine più accettato forse anche per la comune radice di “operaio”. L’esempio più clamoroso – e coerente – è quello di Pietro Gilardi che, artista già affermato, nel 1969 praticamente interrompe la sua attività artistica per dedicarsi alla militanza politica.
«Ma lavorando al progetto è emersa, altrettanto significativa, tutta quell’arte difficile da classificare, chiamiamola “arte spontanea”, legata ai movimenti sociali e che si è espressa con le riviste e con quell’editoria tipografica che va sotto il nome di fanzine. Sì – prosegue Meneguzzo – interessante e attraente. Aveva fatto suo il gusto un po’ psichedelico della grafica d’oltreoceano e con questa condivideva un horror vacui che pare oggi veramente anacronistico». Anche questa produzione sarà esposta e analizzata nella mostra di Milano.
Comune all’arte, diciamo così, degli artisti veri e propri, queste espressioni del movimento avevano la ricerca di un linguaggio nuovo. Un esperimento riuscito? Certamente no. Altrove si consumarono le nuove espressioni, i nuovi esperimenti. La verità è – e non stupisce – che se una rivoluzione visiva c’è stata essa si è svolta con altri mezzi visivi, in altri ambiti comunicativi: nel cinema consapevolmente, nella televisione quasi inevitabilmente, nella musica più felicemente (il più intelligente degli artisti dell’epoca, Mario Schifano, creò un gruppo musicale, “Le stelle”, che ebbe però scarsa fortuna).
E nella stampa, dirlo oggi sembra quasi un paradosso. L’Italia inventò i quotidiani indipendenti Il manifesto e Lotta Continua. «Oggi – conclude Meneguzzo – i Settanta sono molto di moda. È una passione per coloro che definisco i “barricaderi in galleria”. Ma se un’arte del Sessantotto propriamente detto non ci fu, gli artisti, o quanto meno la maggior parte di loro, cambiarono stile e atteggiamento. Furono sessantottini».
Arte ribelle. Artisti e gruppi del Sessantotto, a cura di Marco Meneguzzo, Palazzo delle Stelline, Fondazione Credito Valtellinese, fino al 9 dicembre
Immagine di copertina: Giacomo Spadari, Vietkong, 1970. Foto di Fabrizio Stipari, CreVal