Con la Messa per Rossini Riccardo Chailly esegue un catalogo di compositori italiani dimenticati. Nella stessa settimana il direttore milanese ha inaugurato la stagione della Filarmonica
Dalla Russia di Čajkovskij, o meglio la Piccola Russia – cioè l’Ucraina – della seconda sinfonia, a un inquieto, struggente inedito di Stravinski, canto funebre per il suo maestro Rimskij-Korsakov, fino al raro collage di tredici compositori italiani voluto da Verdi in omaggio a Rossini. Con questo abbraccio sospeso tra ottocento e novecento, Italia e Russia, sacro e profano, Riccardo Chailly ha aperto e chiuso la scorsa settimana della Scala: due successi di fila a partire dall’inaugurazione della stagione della Filarmonica lunedì 6 novembre, fino al primo concerto del direttore musicale del teatro per la stagione sinfonica venerdì 10 e domenica 12, stasera ultima replica.
Procedendo a ritroso, ci si ritrova innanzitutto di fronte a un oggetto musicale composito: la Messa per Rossini, un catalogo di compositori italiani, tutti – tranne Verdi – da riscoprire. Una pagina dimenticata fino alle esecuzioni degli anni ottanta di Helmut Rilling a Stoccarda, Parma e Perugia, dopo che il musicologo David Rosen ritrovò la partitura sepolta dal tempo e dal risentimento verdiano. Perché nonostante le energiche pressioni del compositore, il progetto di eseguire la messa nel 1869, a un anno dalla morte di Rossini, naufragò per dissidi tra Milano e Bologna. In particolare con il sovrintendente del Comunale Scalaberni, anche se il capro espiatorio del fallimento fu il direttore prescelto, il povero Angelo Mariani, artista all’avanguardia troppo spesso maltrattato quando non ignorato dalla storia – il primo a eseguire Wagner in Italia e tra i primi a confrontarsi con tutti i grandi maestri d’Europa suoi contemporanei, da Verdi a Meyerbeer.
Insomma la Messa è un vero flashback musicale nell’ottocento italiano extra verdiano e soprattutto extra operistico. Una sfilata di autori spesso ignoti, a meno che non abbiano la fortuna di prestare il nome a vivaci teatri di provincia, come Carlo Coccia per Novara e Lauro Rossi per Macerata. Alcuni si distinguono per la raffinatezza della scrittura, come Alessandro Nini con il suo Ingemisco di dolcezza quasi belliniana, altri continueranno forse a essere ignorati, ma ascoltarli non è stato vano.
L’importante è rendersi conto che non si tratta di serate a esclusivo godimento musicologico un po’ nerd. La raffinatezza della direzione di Chailly fa capire che per il direttore milanese non esistono compositori minori, ma solo compositori che si eseguono di meno. E non si può che condividere la cura democraticissima e persino commovente con cui Chailly esegue ogni passaggio, dalle polifonie del Sanctus di Platania, ai cromatismi dei fagotti nel Recordare di Ricci, trattati con la stessa attenzione riservata a una pagina di Verdi.
Così, pur ammettendo che dopo due ore di Gaspari e Cagnoni si sia avvertito un certo sollievo per il Libera me di Verdi – giustamente incluso cinque anni dopo nel suo Requiem per Manzoni –, non si può che apprezzare questa operazione culturale del direttore milanese, che ancora una volta si mette in gioco in un repertorio più presente nei convegni che nelle sale da concerto. Per di più Chailly riesce a sbarazzarsi dei pregiudizi su una presunta disomogeneità della Messa, restituendone l’unità, oltre che lo stesso appassionato spirito con cui fu concepita.
Protagonista indiscusso al di là del podio il coro di Bruno Casoni, capace di ogni sfumatura e volume: dalle ampiezze avvolgenti di Requiem e Kyrie di Buzzolla allo straordinario passaggio di voci maschili a cappella nel Lacrymosa di Coccia. Buon quintetto di solisti: Maria José Siri, a cui si possono perdonare un paio di incidenti nel Libera me, Veronica Simeoni, che risolve con gusto l’Agnus Dei di Rossi, Giorgio Berrugi, che fa un Ingemisco di gran classe, Simone Piazzola e Riccardo Zanellato.
Quanto al concerto della Filarmonica del 6, il sontuoso programma russo ha dato prova al pubblico della Scala dell’efficienza dei meccanismi dell’orchestra dopo la trionfale tournée estiva – 11 concerti in 9 sale di 6 paesi. Forse non è azzardato dire che negli ultimi anni non ha mai suonato bene come in queste settimane, per l’energia con cui risponde al suo direttore, mantenendo sempre quella ricercatezza di suono che ogni volta si ammira nelle serate dirette da Chailly.
Sarà forse per questa reattività “muscolare” che l’orchestra dà il meglio di sé nel repertorio del novecento: si pensi ad esempio all’equilibrio raggiunto in un brano come Petruska di Stravinsky, per l’impressionante inflessibilità ritmica di Chailly, o alla scansione dei timbri nei lugubri disegni post wagneriani del quasi inedito Chant funèbre, ritrovato due anni fa nel conservatorio di San Pietroburgo. Infine, per risalire all’avvio del concerto, la seconda sinfonia di Čajkovskij è parsa invece meno adatta alla linea analitica seguita nel resto del programma, e il contenimento nell’esecuzione del brano non ha lasciato deflagrare un’invenzione tematica che sarebbe forse più intemperante, al limite del nevrotico.