Nuova traduzione per “Il Grande Romanzo Americano” di Philip Roth, eterno candidato al Nobel di cui Einaudi sta riproponendo i 31 titoli lasciatici pubblicati prima del ritiro dalle scene nel 2012
Chiamiamolo Smitty. Malato di “allitterazione convulsiva” – «Ma lei non capisce! L’allitterazione è il fondamento della letteratura inglese» – Word Smith, il “cesellatore di parole”, torna in Italia dopo trentadue anni in una veste completamente rinnovata. Grazie a Vincenzo Mantovani, naturalmente, che traduce nuovamente con genialità Il Grande Romanzo Americano di Philip Roth e alla Einaudi che lo ha recentemente stampato e distribuito. L’editore torinese, infatti, ha ormai fatto dell’eterno candidato al premio Nobel uno dei suoi cavalli di battaglia e, a quando pare, è intenzionata a proporre ai lettori i trentuno romanzi lasciatici in eredità dopo il ritiro dalle scene del 2012.
Uscito nel 1973 negli Stati Uniti, «il più divertente romanzo» dello scrittore insignito del Pulitzer per Pastorale americana viene pubblicato in Italia solo nel 1982 da Editori Riuniti nella traduzione di Pierfrancesco Paolini. Introvabile da allora, è da molti, almeno in Italia, considerato un romanzo minore di Roth, l’autore che ha nutrito l’immaginario collettivo con le sue figure di sessuomani inetti, ebrei cervellotici, letterati disturbati, vite perfette sgretolate. Certo, non si tratta di un libro facile per i lettori italiani: pieno di tecnicismi del baseball – «The Great American Novel is a book about baseball and its power as heroic and pastoral myth» scrive Thomas R. Edwards nella sua recensione di allora sul New York Times – la narrazione richiede costantemente l’intervento chiarificatore del traduttore a piè di pagina. Se poi si aggiunge che il tutto va a infarcire un curato impasto linguistico di matrice espressionista e umoristica, allora è facile immaginare quanto possa essere ostica una lettura del genere per un pubblico non avvezzo alla lingua e alla cultura d’oltreoceano.
Fortuna per noi che c’è l’acribia di Mantovani. Ritenendosi «un artigiano che ama il suo mestiere» convinto che il massimo a cui possa aspirare una traduzione sia solo «una discreta approssimazione al testo originale», il traduttore riesce a offrirci una narrazione che, pur non rinunciando mai alla fedeltà al testo, si rivela non solo particolarmente interessante e accattivante per noi “stranieri” ma anche piuttosto divertente; al punto che difficilmente si riesce a staccarsi dalla pagina. Anzi, viene quasi il dubbio che la traduzione sia persino meglio dell’originale.
Più si prende confidenza con il narratore, il vecchio Smitty, giornalista sportivo intenzionato a rivelare al mondo un grande complotto politico-sportivo di cui si è persa la memoria, più si fatica a credergli: «Ciò che i vecchi sono capaci di fare del passato è roba da farti rizzare i capelli in testa». Abilissimo manipolatore di parole giunto a scrivere i discorsi per ben quattro presidenti degli Stati Uniti, amico di Hemingway (la conversazione con il quale, nel prologo, fa a pezzi i più grandi capisaldi della letteratura americana) ha ormai deciso, ultraottantenne, che deve essere lui lo scrittore del “Grande Romanzo Americano”. Il soggetto è chiaro. Specchio ideologico di un’America polarizzata nella Guerra Fredda ma sempre più consapevole delle proprie debolezze e contraddizioni, il baseball rappresenta una specie di mito fondativo e simbolo del suo avvenire. E cosa c’è, dunque, di meglio di un complotto planetario ai danni degli Stati Uniti che ha come protagonista proprio questo sport?
Sembra davvero che sia l’unico a ricordarsi della Patriot League, la terza lega professionistica oltre all’American e alla National. Le sue tracce – secondo il racconto del narratore – sono state tutte abilmente cancellate dalla storia e dalla realtà. Perfino a Cooperstown, nella sede della Hall of Fame, negano che sia mai esistita. Perciò Smitty finisce sempre col fare la figura del vecchio pazzo in occasione della visita annuale organizzata dalla casa di riposo in cui è ospitato. Però non molla: ha tutto ben impresso nella sua mente e proprio la storia dell’ultimo anno di vita della lega gli consentirà di scrivere il “Grande Romanzo Americano”.
“Il Grande Romanzo Americano” di Philip Roth (Einaudi, pp. 418, 21 euro)
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