Il racconto di Thomas Mann si riprende in mano in costante rimando con l’Aschenbach e la Venezia di Visconti e ci si accorge di quanto riduttiva sia la lettura che vuole limitare la novella ad una confessione di omosessualità laddove il tarlo divorante si chiama giovinezza
Non so se oggi Morte a Venezia, la novella di Thomas Mann pubblicata nel 1912, sia un long seller o un evergreen per usare espressioni da marketing sconvenienti verso la natura intima e struggente dell’opera. Credo e spero venda bene, temo nel settore scolastico, magari insieme agli altri racconti o romanzi brevi, alcuni forse consigliati per le vacanze estive dei liceali. Certo che il picco di celebrità l’ebbe nel 1971 quando uscì con successo (891.611 milioni era un bell’incasso) il film di Luchino Visconti che contribuì anche al “consumo” della Terza ma soprattutto Quinta sinfonia di Mahler, così come Kubrick aveva dato una spinta a Beethoven; nel musicista viennese marito dell’onnipresente Alma,il regista aveva identificato anche il protagonista che in origine era uno scrittore esperto di Federico di Prussia, dandogli così due alter ego perché il secondo era chiaramente egli stesso, il conte lombardo appassionato di cose belle dal mondo, alle prese in quel periodo con una trilogia tedesca che comprendeva La caduta degli Dei e terminerà col Ludwig, requiem della cultura della Mitteleuropa e requiem del regista colpito da ictus ancora “giovane” (morì solo settantenne nel 76).
Come aveva detto, scritto pochi anni prima Oscar Wilde – la riprova negli Atti osceni di Moisès Kaufman – la bellezza è l’unica ragione per vivere e la bellezza letteraria l’unico comandamento o giudizio di valore sull’opera. Molti avevano letto la novella dell’autore dei Buddenbrook e della Montagna incantata (li cito perché questi sì, sono best seller e il primo ha avuto il privilegiato di uno sceneggiato Rai dei tempi d’oro), ma molti la rilessero dopo il film con l’ex “servo” Dirk Bogarde che aveva fatto il desiderato salto di classe. E moltissimi ancora scoprirono il libro proprio vedendo la traduzione per immagini, opera di un grande esteta appassionato di questioni sociali e melò, meglio se unite come in Rocco e i suoi fratelli.
Il problema è che allora Der tod in Venedig venne letto sostanzialmente come una confessione di omosessualità da parte dello scrittore, pater certo di una famiglia non pacata, non placata, non riconciliata né col sesso né con la società, come dimostrano i frequenti suicidi e le mefistofeliche frequentazioni: rileggendolo oggi, colpo netto di bisturi di cento pagine la cui lama resta dentro, la sensazione è che Mann puntasse molto più in alto e che l’opera dovrebbe essere proibita ai maggiori di 60 anni per rischio di immedesimazione molesta.
Il bellissimo film di Visconti, con i suoi fasti di scene e costumi di Ferdinando Scarfiotti e Piero Tosi, il meglio del meglio, con la Mangano così magra e rarefatta e lontana dal ruolo di mondina che l’aveva lanciata in Riso amaro, col suo Hotel des Bains ancora in vita (oggi progetto di residence, stessa traiettoria del Giardino dei ciliegi cecoviano), tutto nel film tirava in quella direzione. O forse allora, in epoca non ancora così permissiva, faceva piacere limitare Mann in quella zona da gossip elegante, bissato due anni dopo dall’opera lirica scritta da Britten sullo stesso tema, in scena a Zurigo il 16 giugno 1973: era il vizio dell’arte, tanto per citare Bennett e chiudere il cerchio.
Invece quella di Morte a Venezia non è la cotta senile per un biondino polacco che per fortuna non ha fatto in tempo a girare House of cards (Bjorn Andresen l’attore tanto cercato dal nobile Luchino è morto dopo qualche anno con gran anticipo sulle aspettative di vita), ma se mai è solo un’attrazione generica. Nella novella è proprio la dolce ala della Giovinezza che sfiora per l’ultima volta lo stimato artista Aschenbach, propenso a considerarsi vecchio (rispetto a Tadzio che gioca a palla e dà occhiate furtive sentendosi osservato e desiderato…) mentre oggi Aschenbach sarebbe un maturo ragazzone tedesco e andrebbe in una beauty farm piena di Tadzii. Ma la somma degli addendi, anche al netto di una diversa ripartizione delle età, non cambia il feroce, malinconico risultato: il romanzo è una struggente dichiarazione d’amore per la perdita di un momento magico della vita in cui si poteva conquistare Tadzio o Tadzia non importa la desinenza. Il film del 65enne Luchino insiste infatti sull’aspetto dell’uomo, impazzano belletti e creme, parrucche e tinture molto più che nell’originale, mentre manca la scena della Messa in san Marco in cui il nostro insegue il ragazzo probabilmente annoiato e stordito dall’incenso.
È chiaro che neppure Visconti poteva permettersi di entrare a filmare una scena ufficialmente scabrosa nella basilica del Leone, proprio nello stesso anno in cui I diavoli scatenati di Ken Russell avevano messo in crisi al Lido i rapporti tra il Patriarca, Gian Luigi Rondi e il Vaticano. Così come manca nel film (rischiava di essere un doppio della scena orgiastica nazista della Caduta degli Dei), la bellissima idea del sogno malsano morboso del protagonista che freudianamente salda tutti i debiti col suo inconscio nel sonno.
La morale di Mann, ancora una volta molto post wildiana, morto povero nel 900 a Parigi, è che “l’arte è una vita più intensa, dà felicità più profonda divora di più”. Aschenbach, vittima forse di una profezia, non parte volentieri per la sua breve vacanza, convinto, come Fellini e Kubrick, che viaggiare realisticamente sia contro natura, mentre è altamente consigliabile viaggiare con romanzi, dipinti, film. Questo viaggio sarà infatti dichiaratamente l’ultimo e la presenza del ragazzo fa ricordare a Mann, quasi reazione subliminale, Platone, mentre per Visconti è Venezia, anche lei imbellettata da sempre, a far da baricentro estetico e quasi dannunziano, frusciante da Carteggio Aspern di Henry James. È la Venezia del “suo” Proust (e del “suo” Riskin) col dislivello dei gradini del selciato che tornerà come memoria involontaria nel cortile di casa Guermantes, all’ingresso straziante dell’ultimo ballo. Sempre l’ultimo.
Il colera per cui il nostro muore, tecnicamente parlando da reperto di polizia, è un chiaro espediente letterario, come la Peste di Camus o altre epidemie sud americane di Garcia Marquez: ma dentro c’è un tarlo esistenziale che scava la fossa. E nel libro riletto il tarlo è oggi quasi bergmaniano, quasi da Settimo sigillo e Posto delle fragole (non è un dittico?), niente a che fare con la cotta scandalosa per Tadzio diventata cult tra i sussurri e i gridolini degli avventori dei bar e delle saune gay. Ma l’amore virtuale, teorico, platonico appunto la citazione, rimanda ad altre probabilità e altri imprevisti, alla ricerca di una impossibile, artificiale ridicola seconda giovinezza con l’aggancio circense a un paganesimo culturale del tutto spaesato tra le capanne del des Bains dove vendevano zucchero filato, mentre Dioniso in persona occhieggia e dà l’ultima stoccata al “vecchio” illuso, illustre professore che insegue una palla nell’ultimo sguardo con una nenia russa da sfondo.
Immagine di copertina di Nick Karvounis