“Happy End” non sarà forse uno dei film più riusciti del regista austriaco, ma il suo ritratto impietoso di una ricca famiglia in piena disgregazione morale e affettiva ha il pregio di una grande e spiazzante coerenza stilistica e tematica. E di una sontuosa direzione degli attori, tra cui svettano il patriarca Jean-Louis Trintignant, la nevrotica e ambiziosa Isabelle Huppert e il disilluso Mathieu Kassovitz
L’alta borghesia, anche a Calais consuma i suoi riti stanchi, e di generazione in generazione sembra destinata a svendere non solo i propri beni ma anche e soprattutto i valori che l’hanno nel tempo sostenuta. Georges Laurent, il vecchio padre in sedia a rotelle (Jean-Louis Trintignant) che ha fondato l’azienda, protagonista di Happy End di Michael Haneke, ormai è stanco e malato, distratto, lo sguardo acquoso come un po’ sospeso, già ritirato dal mondo, da quella vita che si avvia verso la fine. Una fine che forse varrebbe la pena di affrettare. L’ambiziosa figlia Anne (Isabelle Huppert) ha preso in mano le redini della società, ma vorrebbe condividere la responsabilità con il trentenne figlio Pierre (Franz Rogowski), visto che non è più un bimbetto: ma lui recalcitra, si rifugia nell’alcol, nell’autocommiserazione, e appena ne ha l’occasione esibisce l’arroganza del potere senza nemmeno tentare di comprenderne le sottigliezze.
Anche l’altro figlio del patriarca, Thomas (Mathieu Kassovitz), sembra bravissimo a sfuggire ogni responsabilità, dell’azienda ma non solo, fra un figlio appena nato e già destinato all’abbandono, e una figlia di primo letto, Eve (Fantine Harduin), incomprensibile come ogni adolescente. Proprio a lei il regista assegna per gran parte del film il ruolo della testimone, forsennatamente impegnata a guardare il mondo attraverso la lente deformante della videocamera di uno smartphone. Intanto, nel cantiere gestito dalla società della famiglia Laurent qualcuno muore, gli ispettori del lavoro indagano, e tutt’intorno i migranti tentano di sopravvivere cercando anche in ogni modo di passare dall’altra parte della Manica, raggiungere la costa inglese, un impossibile Eden in tempi di Brexit e di generalizzata paura della minaccia incarnata dallo straniero.
Non tutti amano il cinema di Michael Haneke. Troppo duro, spietato, feroce. Pessimista. Uno sguardo nero sul mondo, talmente radicale da trasformare anche un giorno di sole in un incubo di crudele ambiguità. Senza speranza. In uno dei suoi film più noti, Funny Games, il regista austriaco arrivava al punto di far riavvolgere il nastro della videocassetta, davanti ai nostri occhi di spettatori atterriti, che dopo due ore di sadico massacro per un attimo avevano sperato in un happy end. Ma il lieto fine non è previsto nell’universo di Haneke. Prendere o lasciare.
Detto tutto questo, Happy End non appartiene alla pur folta schiera dei grandi film di Haneke. Non possiede la spietata purezza di Funny Games e nemmeno il feroce disincanto de La Pianista, non la ruvida crudeltà di Benny’s Video e neppure quell’afflato disperato e sentimentale che permeava Amour, la sua seconda Palma d’oro a Cannes, tre anni dopo il meritatissimo premio all’implacabile Il nastro bianco.
Happy End è un film che tenta di capire la contemporaneità a partire dalle immagini sghembe di un telefonino impugnato come una clava da un’adolescente rabbiosa, e anche da quelle, assai più ottuse, di una telecamera di sorveglianza che inquadra l’incidente nel cantiere senza fornire indicazioni sulla meccanica del crollo e quindi sulle responsabilità. Non si sfugge a questo continuo essere visibili, sembra dirci Haneke, ma una telecamera che ci segue non significa automaticamente che la nostra vita abbia un senso. Siamo di continuo sorvegliati, controllati, è impossibile sfuggire al predominio dell’immagine, ma riprendere una scena non significa riuscire a coglierne il significato. Anzi. La proliferazione di immagini, semplicemente inimmaginabile all’epoca in cui l’oggi 75enne Haneke cominciò a fare cinema, ha prodotto ormai una sorta di assuefazione e depotenziamento delle immagini stesse: sempre più varie e invadenti da un lato, sempre meno significative dall’altro.
All’interno di questa giungla tecnologica, che sembra il naturale e tragico contraltare della “giungla” disperata in cui si muovono i migranti intrappolati a Calais, Haneke si aggira forse con meno incisività del solito ma comunque con la consueta lucidità. E lo fa con il suo stile spiazzante e ironico, sintetico ed elegante, anche quando con grande brutalità ci fa vedere parti di noi e del nostro mondo che preferiremmo non vedere. Perché i Laurent siamo noi, tutti noi: anche se non apparteniamo all’alta borghesia e non abbiamo aziende da guidare o capitali da mettere in salvo, è il nostro quello sguardo obliquo e spaventato, disincantato, a tratti rassegnato, appena un po’ disperato.