La bella e la bestia è una favola di destra?

In Teatro

In forma di fastoso musical, la produzione disneyana de “La Bella e la Bestia” sfodera armi kitch e trash e conquista 23 milioni di spettatori in tutto il mondo: ma non convince

È traumatico accorgersi che La Bella e la Bestia può diventare una favola di destra. Con Beauty and the Beast (al Teatro degli Arcimboldi fino al 3 Gennaio) potete dimenticarvi la storia d’amore tra due reietti vittimizzati dalla folla ignorante: lei intellettuale bibliofila di paese, lui principe burbero e deforme. Dimenticatevi anche le atmosfere inquietanti del castello, simulacro della solitudine interiore della Bestia.

Mentre si assiste vengono in mente i matrimoni combinati del passato. Una giovane donna costretta a stare per sempre in una casa estranea, abitata da un uomo che non ha mai visto e che la terrorizza. Ma tanto poi si innamora e la spaventosa Bestia si trasforma ai suoi occhi in un bellissimo principe, come avviene a Gwyneth Paltrow in Amore a prima svista. È tutto così semplicistico, così cattolico (la “conversione” dello sguardo di lei).

Nulla è rimasto degli ansiogeni temi psicosociali del film, che affronta con coraggio ineguagliato dalla Disney – se non cinquant’anni anni prima con Cenerentola – la questione dell’emergenza della personalità in un ambiente ostile, del distacco dalla casa paterna e, come dice Bruno Bettelheim che di fiabe se ne intende, del sesso che “deve essere percepito dal bambino come disgustoso fintanto che i suoi desideri sessuali sono fissati sul genitore”.

Oltre che per la lettura, anche stilisticamente il musical non funziona. Beauty and the Beast varca con disinvoltura il confine del kitsch per naufragare nel trash. Ad esempio l’abito del duetto d’amore, meraviglioso nel film, sembra un costume di carnevale per bambini. Sfiorano poi il grottesco le nuove canzoni disgraziatamente aggiunte dalla macchina da Oscar Alan Menken, colpevoli anche i testi di Tim Rice (sì, quello di Jesus Christ Superstar): A change in me è quasi una scena di follia di un’eroina donizettiana, ma non in senso positivo. Al contrario laddove sarebbe necessario abbondare fino all’esagerazione con stelle filanti ed effetti speciali, come in Be our guest, si nota un’inspiegabile esitazione, una noiosa sobrietà.

L’acme di effervescenza e originalità della regia si ha solo in una delle prime scene con un tentennante bacio omoerotico tra Gaston e Lefou. Sul fronte effetti speciali, il finale con la trasformazione della Bestia prometteva bene al momento della levitazione, piuttosto efficace, ma il gioco di luci successivo delude le aspettative. Eppure, nonostante le nostre opposizioni, i numeri dello spettacolo ci danno torto: 23 milioni di persone l’hanno visto e rivisto ovunque nel mondo per vent’anni.

Beauty and the Beast, al Teatro degli Arcimboldi fino al 3 Gennaio

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