12 minuti di applausi consacrano al Piermarini l’Andrea Chénier della prima scaligera. Ottima l’interpretazione della coppia Netrebko-Eyvazov (Maddalena-Chénier), apprezzati anche il Gerard di Salsi e la struggente Madelon di Judit Kutasi
Non era una causa persa, quella di Riccardo Chailly difensore di Umberto Giordano e della sua musica spesso bistrattata, per un sette dicembre verista che alla Scala mancava dall’inaugurazione tutto Mascagni del ’63, diretta da Gavazzeni. Pochissime le contestazioni alla fine di questo Andrea Chénier, quasi di cortesia, rivolte non si sa bene a chi dato che, strategicamente, non ci sono state uscite singole degli artisti – o forse è proprio questo che ha fatto arrabbiare qualche loggionista.
Bisogna ammettere che il rischio nelle scorse settimane sembrava alto, in particolare per il tenore azero Yusif Eyvazov, che forse non verrà più chiamato malignamente “signor Netrebko”, almeno non dopo aver retto degnamente fino alla fine nella parte che dà il titolo all’opera. Scampato questo terrore ci si può concentrare su quello dei giacobini, che è terrore e miseria insieme, filtrati ovviamente in musica coi continui slanci del compositore pugliese, che a trent’anni scarsi trionfò di fronte a un’italietta post-risorgimentale, malinconica e disillusa, un po’ alla “fate la rivoluzione senza di noi”.
Chailly ha diretto al di là del verismo, con l’orchestra sempre più reattiva quadro dopo quadro, attraverso una partitura dalla scrittura certamente sinfonica, non meno di Fanciulla del West, amata da direttori come Mahler e Toscanini, con reminiscenze wagneriane che spuntano dal tappeto orchestrale. Ma non è tanto, o non solo sul disegno complessivo che Chailly sembra puntare lo sguardo, quanto sulla preziosità di certi micro passaggi, magari di voci secondarie, tracciati con una raffinatezza che mette a tacere qualunque dubbio sul valore di un’opera spesso liquidata come titolo per cantanti, con folgoranti romanze e poco più.
Aggettivo diventato inflazionato per questo Chénier è “cinematografico”, anche perché a firmare la regia è un artista che ha costruito una carriera a metà strada tra cinema e teatro, Mario Martone. Ma non è solo una suggestione notare che l’opera, del 1896, va in scena un anno dopo le prime proiezioni pubbliche dei fratelli Lumière. E Giordano, che di cinema si interesserà poi moltissimo, sembra scrivere una musica che, in senso drammaturgico, è puro presente: plasma gli oggetti che gli servono, per poi passare oltre immediatamente, alla ripresa successiva, alla nuova «illustrazione del momento» come la chiamava Piero Santi. Più che psicologia o interiorità, c’è nell’opera una continua tensione, scortata da motivi che sembrano usciti da pagine di Brahms o di Mendelssohn.
Questa concezione cinematografica dell’opera, prima ancora che la messa in scena la suggerisce la direzione di Chailly, che scansa qualsiasi sentimentalismo in favore di una fitta, incalzante articolazione governata dalla buca quasi con primi piani e carrellate: un continuo movimento di camera che passa dal «mondo incipriato e vano» del primo quadro, con settecentismi alla Manon Lescaut, a vere e proprie anticipazioni di Tosca nel terzo e quarto. E come già per La gazza ladra, è soprattutto nell’inquietante scena del tribunale che il direttore riesce a impressionare il pubblico, con il calibratissimo baccano della folla – magnifico il coro di Bruno Casoni – che diventa il macabro involucro musicale del verdetto.
Come già detto, è Yusif Eyvazov che interpreta Chénier, poeta ghigliottinato realmente esistito, amato tra l’altro dal balzachiano Lucien de Rubempré all’inizio delle Illusioni perdute. La voce di Eyvazov non è bella, ma sono belle le tante intenzioni. E superato l’Improvviso iniziale, cantato quasi più con gli occhi tanto erano incollati al direttore, il tenore si è sciolto a poco a poco ed è riuscito a dare forma e contenuto a ogni idea. Soprattutto nei duetti con la moglie Anna Netrebko, insuperabile Maddalena di Coigny, espressiva in ogni frase, travolgente ne “La mamma morta” come ci si immaginava. Bravo anche Luca Salsi come Carlo Gérard, tormentato uomo in rivolta che porta in scena uno Scarpia-Weinstein con commosso pentimento finale. Struggente la Madelon di Judit Kutasi, ottime le prove di Annalisa Stroppa come mulatta, “meravigliosa” Bersi, di Mariana Pentcheva come Contessa e di Gabriele Sagona come Roucher. Magnifico l’“incredibile” di Carlo Bosi, capace di far sentire gli incisi, le parentesi, così come il sanculotto Mathieu di Francesco Verna.
Quanto a Martone, il regista torna alla rivoluzione dopo esserci già passato in prosa – La morte di Danton di Georg Büchner –, e all’opera – il suo debutto, Charlotte Corday di Lorenzo Ferrero. La chiave della regia sta tutta nei personaggi-manichini che si vedono fin dall’inizio, disattivati a fine quadro per riattivarsi in quello successivo, mentre la macchina della storia procede nel suo implacabile giro a vuoto. L’imponente scenografia a carillon di Margherita Palli permette che si passi senza pause tra un quadro e l’altro, di modo che non si arresti mai l’accumulo di situazioni, speranze e disperazioni sia sul palco che in buca.
Tanti i dettagli da notare: dalle teste mozzate esibite come in un episodio di Game of thrones, ai giochi di trasparenze con gli specchi della «casa dorata», fino alla qualità pittorica delle scene al Caffè Hottot o delle prigioni. Ma è straordinario soprattutto il lavoro che il regista ha fatto sulle masse, per come riesce a rendere minaccioso questo terzo, o anche quarto stato che in un atto di autocannibalismo si fa tribunale di se stesso, perché «non c’è rivoluzione che non si trasformi nel suo contrario», dice Martone.
Così i personaggi si scontrano con processi irreversibili che li rendono insignificanti, quasi in senso tolstoiano, tanto che diventa ancora più agghiacciante la loro corsa finale verso la ghigliottina, in un’astratta alba bianchissima – le luci sono di Pasquale Mari – in cui tutto è svanito tranne le silhouette dei soldati che fanno la ronda sullo sfondo.