L’Alfabeto d’origine di Lea Melandri: dentro l’esperienza innominabile di sè

In Letteratura, Weekend

Le scritture dal 1983 al 2017 della saggista compongono questo “Alfabeto d’origine”, interrogazione della propria interiorità alla luce del femminismo che mette in discussione gerarchie e strutture in un corpo a corpo con la cultura codificata e trasmessa e in un dialogo serrato con altri e altre

“Karen Blixen racconta una storia che le raccontavano da bambina. Un uomo, che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna” (Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti).

Leggere Alfabeto d’origine di Lea Melandri offre la preziosa occasione di guardare la cicogna mentre viene disegnata, di seguire i tratti apparentemente sconnessi e scomposti che danno forma al pensare e che solo alla fine prendono forma, rimandandosi l’uno all’altro in un incastro al tempo stesso inevitabile e inaspettato. Per questo non è facile raccontarlo senza tradire questa apertura, ma proverò a farlo per suggestioni, illuminando punti che per me hanno risuonato, senza la pretesa di descriverne la ricca totalità.

Lea Melandri raccoglie infatti, in questo testo, scritture diverse dal 1983 al 2017 in un’antologia che riunisce testi poetici, pagine che raccontano la sua vita, confronti con scrittrici e scrittori e analisi politiche. Questa varietà riflette, immediatamente, le sfaccettature della vita di Lea Melandri, saggista, insegnante, ma soprattutto femminista, che lega il suo percorso teorico ad una pratica mai dismessa, fatta di incontri e discussioni che risuonano nei suoi testi.

Il filo conduttore del libro, la sua cicogna, è la scrittura d’esperienza, punto cardine del pensiero e della pratica di Melandri, elaborato a partire dai corsi delle 150 ore e praticato in riviste, spazi e tempi con altre. La scrittura d’esperienza è una chimera, una forma ibrida che attraversa i generi letterari scompaginandoli per fare posto alla vita, ai frammenti, ai confini del corpo, alla sessualità, all’inconscio. È un “salvifico bilinguismo” (pag, 8) che tiene insieme il linguaggio, codificato ed esterno, con la lingua intima, informe, che ci riporta alla memoria profonda di noi stesse.

Non è un caso, quindi, che il testo si apra con la sezione “La lingua ritrovata” e si chiuda con “Riprese”. La prima parte, infatti, raccoglie il racconto del passato di Lea Melandri e la sua riflessione su di esso. A partire dalla sua esperienza di figlia femmina di contadini destinata ad educarsi, Melandri rielabora il rapporto col paesaggio, con l’infanzia e con la lingua pastosa che l’accompagna, tanto da farle definire l’italiano appreso a scuola una lingua straniera. In queste pagine ci ricorda che “si parte sempre dal luogo dove uno è stato messo” (p. 28), dall’origine non voluta e non scelta che ci condiziona. Da questa narrazione di sé traspare un mondo interno, inteso come una mappa, un paesaggio appunto, da scoprire e non come un pozzo da cui trarre esperienze. Questo mondo lo ritroviamo anche nell’ultima parte, nei frammenti di un diario poetico in cui ripercorriamo stralci di vita e di impressioni.

Queste sezioni racchiudono, come una cornice, le “Corrispondenze amorose”, in cui Melandri si confronta con altri testi e autori/autrici, da Franco Rella ad Asor Rosa, da Agnese Seranis a Annie Leclerc. Questi testi vengono trattati come l’altra in un rapporto di autocoscienza: non si tratta, infatti, di analizzarli e descriverli, ma di scavarli, scomporli in frammenti in cui perdersi e ritrovarsi con una consapevolezza nuova, scoprendone il non-detto. Non si tratta, quindi, di un’operazione di studio, ma di una pratica di dialogo, di incontro, resa possibile grazie al femminismo, che mette in scacco l’idea di una fruizione della cultura così come è stata sempre pensata. La sfida, infatti, non è quella di trovare una verità certa, ma di farsi attraversare dai testi di altre e altri per illuminare convergenze e divergenze e per entrare in contatto con esistenze diverse che ci modificano.

A questa parte segue quella intitolata “La scrittura di esperienza” che raccoglie testi intorno a questo tema, declinato in diverse sfaccettature e con diversi stili. Queste riflessioni si ancorano attorno alla domanda: “Ma si può scrivere il corpo, le sue passioni, le sue ombre, le sue ferite, il suo lato impresentabile, l’orrore e il piacere che lo attraversano?” (p. 124). Una domanda alla quale il libro risponde evidentemente in maniera affermativa, ma solo a patto di rimettere in discussione il linguaggio, che appare cristallizzato e incapace di parlare davvero, inventando una lingua nuova che sappia raccontare le frontiere e nominare le molte cose senza nome che attraversano il nostro inconscio.

Tutto il libro, quindi, si forma qui, in un corpo a corpo con la cultura insegnata e trasmessa, a partire dalla consapevolezza che “gran parte della mia vita fosse rimasta fuori dalle aule scolastiche” (p. 120), che bollano come fuori tema ogni scrittura fuori dal canone e ogni esperienza fuori dai codici. Questo corpo a corpo non è indolore o privo di ambivalenze, è una guerra che parte proprio dall’acculturazione contro cui si dibatte per scavare strade più vicine al vivere, che sappiano rendere conto di un’interiorità che quando è dispiegata non può che cancellare la storia, in favore del tempo indefinito e immutabile che scandisce i nostri mutamenti. Non è un caso che questo tipo di scrittura si leghi al femminismo, alle donne che sono state escluse dal pensiero razionale che le ha però definite e allo stesso tempo esiliate dal proprio corpo sempre descritto dalle parole di altri. Per questo Sibilla Aleramo è una figura cardine di tutto il libro, che appare e scompare in maniera carsica, dando corpo alla possibilità di essere altre sovvertendo un mondo maschile nel quale si entra.

Si potrebbe dire che questo libro si muove costantemente sul filo del paradosso, che come afferma Olympe de Gouges è ciò che le donne hanno da offrire. Il paradosso di servirsi della scrittura per smontarla, di prendere congedo dal passato per poterlo guardare, di sentire la “forza invasiva del mondo interno” (pag. 28). Ma anche il paradosso di ricercare la natura come luogo del ritorno e del piacere del corpo e di farlo in quanto donne che alla natura sono sempre state incatenate. Questi paradossi sono possibili, in queste pagine e fuori, se si è capaci di prendere distanza dall’impianto dualistico nel quale siamo intrappolate, di immaginare scarti e fratture a partire da quel luogo ineffabile che siamo noi stesse, che mette in difficoltà ogni rappresentazione, ma che allo stesso tempo ci apre al mondo.

Lea Melandri ci offre, con generosità, uno sguardo su di sé che apre all’ascolto dell’altra e dell’altro, una postura che racchiude il senso più pieno del femminismo, capace di coniugare pratica e teoria. Ed è forse per questo che le pagine più forti sono quelle dedicate proprio alla scuola, luogo in cui si incontrano i diversi vissuti di Melandri, da allieva da disciplinare a insegnante antiautoritaria. Ma la scuola è anche il luogo che può permettere un cambiamento profondo: il testo invita a riflettere sull’educazione alle differenze che, se non vuole essere solo esortazione al rispetto, deve andare alle radici di un dominio intimo e oscuro. In questo senso è necessario che le insegnanti, per prime, si interroghino sul loro ruolo, delineato a partire dalla figura materna e quindi sempre pervaso dalla dimensione di genere. E poi bisogna dare spazio ai vissuti, far emergere il sottobanco, in tutta la sua tumultuosa potenza. Ma Melandri ci interroga anche sul senso stesso delle differenze, a cui troppo spesso si dà spazio senza chiedersi come sono state costruite: anche in questo lo sguardo femminista è sovversivo, dal momento in cui è stato capace di mostrare lo scarto tra le differenze rappresentate e le vite reali, incarnate in corpi vivi.

Il testo di Lea Melandri, così, ci consegna una complessità e un’interrogazione costante sul senso del partire da sé, da quella terra ignota che è l’interiorità, per mettere in discussione le gerarchie e le strutture che abitiamo. Un’interrogazione tanto più utile oggi in cui si confonde spesso la narrazione dell’esperienza con l’esibizione, in cui la rete, da luogo possibile di sovversione e sperimentazione, diventa sempre più spesso uno spazio che dà forma alle nostre rappresentazioni dentro confini e codici ben definiti, enfatizzando la ricerca di approvazione e di riconoscimento. Nei social network si ritrovano, infatti, molte scritture di sé (e Lea Melandri trasporta spesso le sue su facebook), ma in cui l’esperienza, per emergere, deve fare i conti con strutture forse diverse da quelle del linguaggio della cultura, ma che non per questo imbrigliano di meno. E soprattutto si fatica a trovare gli strumenti per trasformare queste esperienze non solo in racconti di vita, ma anche in forza collettiva. E allora l’invito di Lea Melandri a portare le parole dei volantini e dei documenti femministi nelle classi può essere inteso anche come un invito più ampio a portarli nel nostro pensare e nel nostro scrivere, per poter trovare, nella storia della formazione di pensieri e pratiche così vicini e così sconosciuti, un linguaggio che cominci a nominare gli imprevisti innominabili, per disperdere il senso del dualismo e per aprire le gabbie che crea.

Immagine di copertina: Marché au Minho – Sonia Delaunay

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