La ragazza con la Leica di Helena Janeczek segue le tracce della fotografa tedesca Gerda Taro da prospettive molteplici, che si incrociano repentinamente, restituendo un ritratto sfaccettato e complesso.
La sigaretta tra le dita, le labbra sottili piegate in una smorfia, una strizzata d’occhio, il mento sollevato, lo sguardo sfrontato, spavaldo ed ammiccante.
È con la fotografia in copertina al volume di Guanda editore che comincia la lettura dell’ultimo romanzo di Helena Janeczek, La ragazza con la Leica.
Chi se non il fotografo e amante Robert Capa poteva cogliere in uno scatto l’anima di Gerda Taro?
Con una sapienza estetica fuori dal comune e un intuito naturale, lo sguardo di Capa può dire di Gerda Taro, quanto neanche l’intero romanzo riesca a suggerire. Sebbene la fotografia sia per un occhio non allenato un linguaggio di difficile interpretazione, la maestria di Robert Capa ci ha consegnato un ritratto di un’eloquenza stupefacente, dove l’essenza della Taro affiora per schiudersi in un prodigioso istante epifanico.
Il romanzo segue le tracce della fotografa tedesca, Gerta Pohorylle, in arte Gerda Taro, da prospettive molteplici, che si incrociano repentinamente, restituendo un ritratto sfaccettato e complesso. Sono gli occhi e le orecchie di tre personaggi a condurci in questo viaggio alla scoperta di Gerda Taro: Willy Chardack, un giovane studente di medicina, Ruth Cerf, l’amica di Lipsia, e George Kuritzkes, brigatista ed ex amante di Gerda.
Contrariamente all’immediatezza del linguaggio fotografico, il romanzo di Helena Janeczek dipinge la figura di Gerda attraverso una sorta di scomposizione cubista che, da una parte, rende la complessità, dall’altra rischia di trascinare il lettore in un percorso labirintico di voci ed immagini senza via d’uscita. Sono i dettagli infinitamente piccoli, ma significativi ad illuminare la storia di una donna libera e sfuggente, controversa e pronta ad abbracciare la sfida all’antifascismo.
Immergendoci nei ricordi frammentati dei tre narratori, veniamo travolti e spiazzati da una mole di informazioni e particolari nei quali è facile perdersi. In questo alternarsi di inquadrature soggettive emergono le sfaccettature che in una visione univoca saremmo destinati a mancare, al contempo la carriera di Gerda Tarda come fotografa si diluisce in una serie di aneddoti, per lo più sentimentali, che mettono al centro più la sua volubilità, che il suo merito storico come antesignana del fotoreportage di guerra. D’altra parte non si sta parlando di una biografia, ma di un romanzo biografico, che, in quanto tale, lascia ampio margine alla fluttuante fantasia di chi scrive per dare respiro e vitalità ad una personalità che, costretta nella rigidità di una ricostruzione storico-biografica, rischiava di uscirne appiattita.
Uno degli indubbi meriti della scrittrice Helena Janeczek è l’aver svolto un’impresa documentaristica significativa, dove la scrupolosità e una certa ossessione per le fonti le hanno consentito in fase compositiva di romanzare a briglie sciolte la vita della poco conosciuta Gerda Taro.
Il tocco documentaristico, seppur involontariamente, è percepibile nel corso del romanzo, rendendolo in alcuni punti ostico al lettore comune, ma sicuramente pregevole nel suo grado di attendibilità storica.
Le fitte ricerche condotte dalla scrittrice sono confluite in un sito web interamente dedicato alla fotografa tedesca: la pagina web è corredata di contributi musicali, fotografici e video di notevole interesse per chi volesse conoscere più da vicino non solo la figura di Gerda Taro, ma anche il mondo che le gravitava intorno. Tra i contenuti proposti dalla Janeczek, si spazia da Tempi moderni di Charlie Chaplin, tra i film preferiti di Gerda, ad un interessante documentario sul ritrovamento in Messico nel 2007 di una valigia contenente tra le più preziose testimonianze sulla guerra civile spagnola: oltre 4500 i negativi trovati, attribuibili a David Seymour “Chim”, Robert Capa e Gerda Taro.
Il ritrovamento dei negativi ha costituito una svolta epocale nella conoscenza e ricostruzione della guerra fratricida spagnola e ha consacrato il valore artistico delle opere di Chim e Gerda, relegati nell’ombra dall’astro di André Friedmann, altrimenti noto come Robert Capa. Sulla riscoperta e sulla valorizzazione della figura di Gerda Taro, si innesta il romanzo di Helena Janeczek, che della protagonista condivide le origini: entrambe tedesche di radici ebreo-polacche.
Ad accomunare la scrittrice alla protagonista del suo romanzo è un certo multilinguismo, che in alcuni punti del libro può risultare spiazzante, in quanto non corredato di traduzione; ma è nell’impasto di lingue e voci che si avverte il senso universalizzante del lavoro del fotoreporter. Di fatto, la Taro perse la vita per testimoniare il conflitto di una terra che le era persino straniera. Il mescolarsi di francese, inglese, tedesco, italiano, spagnolo ed ebraico conferisce al romanzo della Janeczek un respiro globale, che trova nel panorama odierno una forza straordinaria: nel contesto dei flussi migratori che caratterizzano il nostro tempo la letteratura italiana si prepara ad allargare i suoi confini e ad accogliere entro il suo seno linguaggi ed espressioni che giungono da fuori. Helena Janeczek, tedesca naturalizzata italiana, costituisce in tal senso un paradigma interessante, proponendo un italiano duttile e sapientemente aperto agli influssi stranieri.
In riferimento all’universalismo accennato, ciò che spinse i tre impavidi fotografi a buttarsi a capofitto nella furia della guerra spagnola non può attribuirsi alla mera vocazione ideologica, ma al loro istinto di testimonianza. La spasmodica ricerca dell’attimo fuggente non era volta alla teorizzazione di un’estetica, era piuttosto dettata da una vocazione documentarista, che darà vita al genere del fotoreportage di guerra.
Se volessimo provare a tratteggiare l’estetica che soggiace ai capolavori Capa-Taro non rimane che affidarci alle parole di Capa: «Se le vostre foto non sono abbastanza buone, non siete abbastanza vicino». Una pretesa di realismo così imperante richiede coraggio e una certa incoscienza: come racconta Helena Janeczek, la giovanissima fotografa era spregiudicata anche sul campo, correndo a fianco dei soldati di fanteria mentre infuriava la battaglia. È così che nel 1937 Gerda Taro trova la morte a Brunete, in Spagna, travolta accidentalmente da un carro armato repubblicano: il suo ultimo pensiero è rivolto alla Eyemo, la macchina fotografica messa a disposizione di Capa dalla redazione di Time-Life per testimoniare il conflitto spagnolo.
Le foto di Gerda Taro, insieme a quelle di Capa e di Chim, ebbero un impatto significativo, documentando il coinvolgimento, per la prima volta nella storia europea, di migliaia di civili: sulle copertine di Life fecero la loro apparizione donne e bambini e le atrocità della guerra civile spagnola erano ormai sotto gli occhi di tutti. La vicinanza della macchina fotografica ai soggetti ritratti offriva della guerra una visione intima e straziante, fatta di frammenti e di istanti catturati qua e là, scomposti, ma intrisi di una violenza inaudita.
La frammentazione caratteristica dei fotoreportage firmati Capa-Taro si riflette nel ritmo singhiozzante di un romanzo che non conosce fluidità, ma procede a sbalzi con ellissi, omissioni e qualche anacoluto. È una narrazione fatta di sospensioni e deviazioni, su cui il lettore deve indugiare per non perdersi, al contempo la scrittura è piena, ricca di immagini suggestive e poetiche.
Pur nello spaesamento che l’opera di Helena Janeczek produce, in questo gioco di luci riflesse, di abbagli, vi è un’elettricità pura, che scaturisce da una sinergia amorosa e professionale: André Friedmann non sarebbe diventato Robert Capa senza Gerda, come Gerta Pohorylle non sarebbe forse mai diventata Gerda Taro senza il suo Capa.
Voleva dirlo a Gerda e tirare fuori subito la prova che non si era inventato nulla, deponendo la Eyemo nelle sue belle mani incredule: il tutto abbracciandola, baciandola sul collo e poi mettendosi a barcollare avvinghiati per la stanza come dei ballerini di polka ubriachi.