Perché è una mostra bellissima e perché fa ben sperare per il futuro. Questa la nostra recensione della grande esposizione dedicata al pittore senese del Trecento. Proprio ieri la mostra è stata prorogata fino ad aprile: il suggerimento è di non lasciarsela sfuggire!
La mostra su Ambrogio Lorenzetti, inaugurata a Siena in ottobre, è probabilmente la mostra più importante dell’anno appena concluso. E non soltanto perché è una mostra bellissima – con opere straordinarie e funzionali al percorso, senza cedimenti di qualità; con un progetto scientifico e di studio pluriennale; con un allestimento elegante al servizio dell’esposizione; con un apparato didascalico finalmente essenziale e chiaro. Non soltanto, dicevo, perché la mostra, curata da Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini e Max Seidel, è bellissima, ma anche per quello che rappresenta.
Bisogna però fare un passo indietro. Per molto tempo, fin dagli anni Ottanta, Siena ha rappresentato un’isola felice nella geografia degli studi storico-artistici italiani. Tre ingredienti fondamentali: un dipartimento universitario d’eccellenza, cresciuto intorno a due grandi studiosi: Giovanni Previtali (1934-1988) e Luciano Bellosi (1936-2011), capaci di portare avanti – in modi diversi, trasformandola e mescidandola – la lezione del loro comune maestro, Roberto Longhi (1890-1970); una situazione (purtroppo non così usuale) di concordia e comunanza di intenti tra Università e Soprintendenza; amministrazioni comunali attente e una banca – il Monte dei Paschi – disponibile a supportare sul fronte economico.
Da queste particolari condizioni sono nate, negli anni, mostre epocali che hanno riscritto, pezzo pezzo, secoli di storia dell’arte, a Siena e non solo, attraverso le vicende di alcuni protagonisti, più o meno celebri al grande pubblico, dell’arte senese: da Simone Martini (1985) a Domenico Beccafumi (1990) , da Francesco di Giorgio Martini (1993) a Duccio di Buoninsegna (2003). Mostre di studio e divulgazione, nate nell’Università e proiettate sul territorio, intrecciando inscindibilmente, come dovrebbe essere, ricerca e tutela.
Proprio l’esposizione su Duccio però, quindici anni fa, pareva destinata a rimanere l’ultima della serie. E non è tanto la morte di Bellosi, scomparso nel 2011, a interrompere la virtuosa tradizione: accanto ai maestri si sono formati negli anni allievi all’altezza, ben pronti a raccoglierne il testimone. Sono piuttosto le note vicende di crisi economica e politica che hanno investito le amministrazioni pubbliche prima, e il Monte dei Paschi poi, a far venire meno le condizioni produttive necessarie. Pareva, insomma, una vicenda chiusa, buona per le eterne nostalgie di un’età dell’oro che sta sempre alle spalle (ma non è così per tutti, generazione dopo generazione?), e i rimpianti di chi, come me, si è affacciato alla disciplina troppo tardi per intercettare quella stagione.
Fino ad oggi; fino a questa mostra su Ambrogio Lorenzetti, prodotta con sforzo non scontato dal Comune di Siena, e messa in piedi proprio come allora: nelle premesse, si intende, che risultati e forme e sensibilità non possono che essere mutati. Con l’Università e la Soprintendenza fianco a fianco; con un progetto di studi impiantato in forma seminariale, che ha coinvolto per anni, accanto ai curatori, allievi e giovani studiosi; con un programma di restauri mirato che ha accompagnato la messa a punto del progetto (si è intervenuti, per esempio, sui cicli ad affresco in San Francesco e in Sant’Agostino). Con la tensione civica e politica che spinge a credere che anche la più rigorosa e filologica ricerca scientifica debba essere restituita alla cittadinanza in forme piane e accessibili: senza inutili specialismi, senza fumo negli occhi; ma anche, con fiducia, senza improprie semplificazioni o banalizzazioni, senza ricorrere all’ovvio, a rimasticature del già noto e del già detto.
Per tutte queste ragioni, la mostra su Ambrogio Lorenzetti è la mostra più importante dell’anno. Poi c’è la mostra in sé che – lo si è già detto? – è bellissima. E veniamo ad Ambrogio.
Non ne conosciamo la data di nascita. La prima opera datata risale però al 1319: Ambrogio è, a quell’altezza cronologica, già un maestro autonomo. La sala introduttiva dell’esposizione riassume, in un colpo, i modelli e i riferimenti che ne segneranno l’esistenza.
Da una parte Duccio, il patriarca ormai anziano della pittura a Siena: Ambrogio si forma, forse, nella sua bottega; certamente il linguaggio del grande Duccio rimarrà come una parlata materna, una lingua base per ogni possibile sviluppo futuro.
Dall’altra il fratello maggiore, Pietro, con cui a più riprese, negli anni, Ambrogio condividerà cantieri e commissioni; meno inventivo del fratello minore, forse meno geniale, non va dimenticato però che Pietro affresca, nel secondo decennio del secolo, il transetto sinistro della Basilica inferiore di Assisi, subentrando, di fatto, niente meno che a Giotto.
Pietro è un pittore internazionale, nell’Italia di allora, non limitato all’asse Siena-Firenze: averlo in famiglia significa quindi, se non altro, aggiornamento di primissima mano su quanto di meglio e di più nuovo si va facendo nella penisola in quel momento. Che significa, in primo luogo, aggiornamento sulle novità della pittura reinventata, guardando alla realtà, da Giotto. E il problema della rappresentazione di uno spazio coerentemente tridimensionale occuperà la riflessione di Ambrogio per l’intera carriera: facile immaginarlo discutere, in uno dei suoi tanti soggiorni fiorentini, con qualcuno degli allievi di Giotto; magari dei più “spaziosi”, come Taddeo Gaddi, impegnato sui ponteggi della Cappella Baroncelli in Santa Croce.
L’ultimo riferimento inevitabile, il confronto decisivo nell’esistenza di Ambrogio, è quello con Simone Martini. È in dialogo con Simone che Lorenzetti si avventura nel tentativo di rileggere le novità giottesche attraverso la lente elegante del gotico più francesizzante: figure allungate, gamme cromatiche raffinate… Quasi a gara, i due si lanciano nella sperimentazione di lavorazioni sempre più elaborate dei materiali preziosi, forse l’aspetto che più colpisce visitando la mostra. Pietre, argento e soprattutto oro, oro ovunque: oro inciso a bulino, stampigliato con punzoni sempre più complessi, oro dipinto in trasparenza (si guardino gli strepitosi angeli evanescenti di pura luce della cosiddetta Piccola Maestà della Pinacoteca Nazionale di Siena o le vele, dipinte sull’oro, nelle Storie di San Nicola degli Uffizi), oro sgraffito…
Solo con la partenza di Simone verso la corte papale di Avignone, nel 1336, Ambrogio potrà avere partita vinta a Siena. A Simone toccherà gloria imperitura, anche grazie alla celebrazione nei versi di Francesco Petrarca; ad Ambrogio un ruolo egemone da vero e proprio pittore civico a Siena, portavoce simbolico dei valori più profondi della Repubblica: diventa, insomma, il pittore degli Effetti del buono e cattivo governo (ma le commissioni per Palazzo Pubblico sono diverse, ben ripercorribili in mostra).
Superata la prima sala, con i confronti necessari per un inquadramento, la mostra si sviluppa come un discorso solitario: solo le opere di Ambrogio, disposte in una convincente seriazione cronologica, permettono di seguirne il percorso: così particolare, così personale. Nulla è mai scontato per il minore dei Lorenzetti: ogni aspetto dell’opera è sottoposto a un processo di continua invenzione e ripensamento, nulla si presenta mai nella forma più scontata, tutto è occasione di sorpresa e sottile straniamento: dalle forme delle cornici e dei polittici alle soluzioni decorative, alle convenzioni iconografiche. Chi aveva costruito mai un polittico con il campo centrale quadrato, come accade nel trittico di San Michele, probabilmente destinato al convento di Monteoliveto Maggiore? Chi aveva assiso la Madonna su un trono di legno che ancora mostra i nodi per la lavorazione grezza, come nella tavola di Vico L’Abate?
La sottigliezza del gioco intellettuale si accompagna al più esauriente sondaggio degli aspetti fenomenici della realtà mai tentato fino ad allora. Su una strada aperta da Giotto, Ambrogio si inoltra per indagare il reale in ogni suo aspetto, fin quotidiano, fin meteorologico. Nascono così i primi tentativi di ambientare scene in notturna, come nella Crocifissione di Francoforte, o di raffigurare gli eventi meteorologici: neve, tempesta, grandine. Così, per esempio, nel ciclo di affreschi per il chiostro del convento di San Francesco dedicato al martirio del francescano Pietro da Siena, in India, nel 1321: sostanzialmente un fatto di cronaca contemporanea. E davanti a quella raffigurazione di tempesta rimarrà sbigottito, un secolo dopo, il grande Lorenzo Ghiberti.
La più complessa riflessione teologica, che porta Ambrogio a elaborare intricatissime iconografie (Berenson parlava per le pitture di Lorenzetti, così distanti dal suo gusto, di «sciarade» o «rebus»), si coniuga allo sforzo costante di umanizzare le vicende della storia sacra: basta vedere le infinite declinazioni del tema della Madonna col Bambino, reinventato all’infinito nel tentativo di raffigurare un rapporto vero, tra madre e figlio.
Per non dire di quanto accade negli affreschi della rotonda di San Galgano a Montesiepi, ora agganciari a una data certa 1334-1335 (è uno dei tanti accrescimenti di conoscenza oggettivi della mostra) e splendidamente fruibili grazie all’intelligente soluzione dell’allestimento curato dallo studio Guicciardini&Magni: qui, tra altre scene, Ambrogio affresca una Annunciazione. Lo stacco dell’intonaco, condotto per ragioni conservative negli anni Sessanta, ha riportato in luce la sinopia sottostante: il disegno preparatorio, condotto direttamente sull’arriccio del muro, approntato prima di stendere l’intonaco (è l’immagine di copertina di questo articolo). Qui Ambrogio aveva inventato un’immagine della Vergine inusitata: reagisce con terrore all’annuncio dell’Angelo, crolla al suolo e si ritrae, come spaventata da una responsabilità troppo pesante da sopportare; le mancano le forze, si aggrappa a una colonna. Dovette sembrare un’invenzione troppo ardita anche ai committenti, i cistercensi dell’abazia di San Galgano, che a pochi anni dalla realizzazione fecero ridipingere, da un altro pittore e in maniera più tradizionale, la figura di Maria.
La vicenda esistenziale di Ambrogio si conclude tragicamente nel 1348: la Peste Nera che avrebbe cambiato drasticamente le sorti di Siena e d’Europa, porta via in pochi mesi Ambrogio, il fratello Pietro, la moglie, il figlio Mario (nome antichizzante, a testimonianza delle ambizioni di un artista colto), tre figlie femmine: la storia dei Lorenzetti si chiude di botto. La storia delle mostre senesi, per fortuna, è ripartita.
Immagine di copertina: Ambrogio Lorenzetti, Vergine annunciata, sinopia degli affreschi della Cappella di San Galgano, Montesiepi