A un mese dalla scomparsa dell’artista milanese Roberto Ciaccio, il ricordo di chi l’ha conosciuto e ha avuto il piacere di lavorare con lui
Poco più di un mese fa, il 27 novembre, è morto Roberto Ciaccio. Era il mio compleanno, ma io l’ho saputo qualche giorno dopo.
Il mio rapporto con lui è stato difficile: non per litigate da romantici dell’Ottocento, né per profonde incomprensioni reciproche. Semplicemente per la mia stupidità di giovane, poco più che ventenne, e per i mille impegni che ogni giorno ci travolgono: una vita frenetica in cui io mi sono immerso e da cui Roberto provava a stare, saggiamente, il più lontano possibile. Mi ha lasciato andare, nella sicurezza che – prima o poi – sarei tornato. E tornavo regolarmente, e lui sempre mi accoglieva nel suo studio chiaro e luminoso di corso di Porta Nuova.
Entrare nel suo studio significava entrare nella sua vita. Lì c’era – c’è –, insieme alle opere, una camera da letto, e una cucina con un Tulip di Eero Saarinen, e tante sedie dove stare a chiacchierare. A un certo punto entrava sua moglie Maria Pia, presenza costante, discreta ma fondamentale per il suo lavoro. Lì si conoscevano i suoi figli e i suoi amici. Lì ci si guardava intorno durante le sue lunghe telefonate con personaggi più o meno grandi degli ultimi decenni: si parlava dei suoi incontri con Testori, dell’amicizia con Arturo Schwartz, dei suoi viaggi con Gio’ Marconi, della sua mamma antiquaria da cui passavano quadri di Luini e di Morandi.
Mi riaccoglieva sempre, in quello studio, nella certezza che le cose si valutano sui tempi lunghi, che la vita non ci è stata data per essere vissuta e valutata ad episodi, ma per farne un percorso. Esattamente così nascevano e si sviluppavano le sue opere: il rapporto profondo con la matrice metallica da cui si originava la stampa e con il suo risultato, l’uso proprio della stampa tradizionale, la lenta maturazione del lavoro, l’altrettanto ponderata valutazione dei suoi esiti valorizzavano le opere nella loro singolarità, nel loro percorso e nelle loro relazioni reciproche. E questo, facilmente, nella sua vita si trasformava nella capacità di valorizzare gli individui e capirne le storie.
Una macchia, un solco, un grumo di colore, una luce particolare erano ciò che differenziava lunghe serie di lavori solo apparentemente uguali. Proprio così Ciaccio scardinava alla base le idee di Benjamin sulla riproduzione tecnica dell’opera d’arte: persino attraverso la stampa, un lavoro non si ripeteva mai uguale. Una delle tante rivoluzioni, pudicamente provocatorie, contenute nell’opera di Ciaccio. Una rivoluzione che non stava nelle parole dei cataloghi – pur importanti –, ma nell’opera, nel lento e profondo guardarla: ed era questo che lo rendeva genuinamente molto più artista che filosofo.
Non erano questioni da perdigiorno, quelle macchioline sulla superficie delle opere: in gioco c’era la capacità di guardare, di prendersi il tempo per osservare, trovare la distanza giusta, scovare le petites différances tra le opere, guardarle longitudinalmente, in sequenza. Era una sfida coraggiosa, che pulsava nel centro cittadino, proprio vicino ai nuovi grattacieli dell’area Garibaldi: una sfida al progresso e alla modernità che tutto travolge, un urlo silenzioso alla necessità della discrezione, del pudore, del pensiero profondo, della riflessione, dell’amore, del tempo che tiene insieme le cose a patto che noi non lo sfilacciamo. Così, tra quelle macchioline casuali, non volute, le sue opere e i loro significati parevano prodursi da soli. E Roberto sarebbe voluto sparire, avrebbe voluto poter credere nell’autoprodursi delle opere, nell’utopia dell’opera anonima, mentre notava quanto, di fuori, il divismo imperversasse come una sindrome diffusa, tra gli artisti.
Attorno alle sue opere, pur stampate, pur ripetute, pur tecnicamente riprodotte, si creava un’aura persino fisica, al punto che le macchine fotografiche digitali (moderne) non sapevano metterne a fuoco un centro, sempre sospese sulla soglia – ossessione di Roberto – che divide e contemporaneamente tiene insieme visibile e invisibile. Non a caso tra i tanti che erano riusciti a cogliere la potenza del suo lavoro c’erano molti musicisti, capaci di cogliere il tratto sottile della sua pantografia dell’inesprimibile.
Inutile elencare, ora, i tanti successi comunque raggiunti, le mostre in giro per il mondo, i grandi cataloghi, le firme illustri che hanno scritto per lui. Lui non c’è più, ma ci sono le opere. Forse, hanno infine trovato il loro anonimato, la loro infinita capacità di continuare a vivere autonomamente. C’è la sua firma, ma è solo il segno di chi dovremo sempre ringraziare.
Foto: Veduta della mostra “Inter/vallum” (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi)