Con Mariotti La bohème non è più la stessa

In Musica

Si pensa di sapere tutto sul celebre melodramma pucciniano. Ma per fortuna il giovane direttore pesarese ha messo tutto in discussione. Con la complicità del regista Graham Vick non nuovo alle riletture rivoluzionarie

Qualcosa è cambiato con La bohème diretta a Bologna da Michele Mariotti con regia di Graham Vick. Una delle ragioni è che, anche se tutti in sala sanno che Mimì deve morire, ogni presagio di tragedia viene rimandato, rimosso, negato fino all’ultimo. E quando la gioventù della “gaia fioraia” si spezza sulla spalla di Rodolfo, questo, per intuizione del regista, fugge via terrorizzato, incapace di sopportare il dolore e lo choc della perdita. “La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante” scrive Joan Didion, che la morte l’ha conosciuta bene. Ma vale per qualunque altra cronaca di una vita che si spegne.

Non capita spesso di assistere a uno spettacolo in cui direzione e regia si muovono così coerentemente una rispetto all’altra, in cui le intuizioni musicali trovano sempre un doppio sul palcoscenico e viceversa. Capita ancora meno con un titolo di cui si pensa di sapere già tutto come La bohème, che sembra aver già mostrato al mondo ogni suo pregio e ogni suo limite. Un’opera che si liquida in fretta come capolavoro perché in pochi hanno davvero voglia di rimetterci la testa.

Per fortuna ci ha pensato Mariotti che, prendendo in mano la partitura per la prima volta, ha messo tutto in discussione per ricordarci che sì, in effetti La bohème è davvero un capolavoro. Solo lo ha fatto nel modo più imprevedibile, trovando un punto di forza nella frammentarietà della musica di Puccini, nello sviluppo drammatico dell’opera, così raffinatamente debole. Sarà per questo che di solito si preferisce amalgamarla, forzando una consequenzialità musicale e teatrale che invece forse manca all’opera, ed è giusto che manchi. Fedele D’Amico lo chiamava “sinfonismo di conversazione”, anche se quasi tutti i grandi direttori si sono concentrati più sul primo aspetto che sul secondo, cogliendo gli spunti sinfonici presenti in partitura e diluendo invece i disegni concisi delle scene dialogate.

Al contrario La bohème di Mariotti e Vick, in molti passaggi, diventa quasi teatro di prosa, e permette di cogliere come in quest’opera ogni quadro sia statico nell’insieme ma vivacissimo nel dettaglio. Tanto che la decisione di Mariotti di non illanguidire le frasi, di rinunciare alle pennellate obnubilanti e alla smania dell’atmosfera a ogni costo, rende tutto più interessante e, incredibile a dirsi, rende tutto nuovo. Il Puccini che viene fuori sembra più drammaturgo che musicista, come del resto aveva già scritto Mosco Carner, e questo potrebbe permetterci in futuro di pensare alla Bohème non come un poema sinfonico mancato, ma come un ricchissimo mosaico, in cui contano soprattutto le differenze di colori, oltre agli incessanti cambi di tono, dal giocoso al lirico al patetico.

Mariotti dirige sottolineando la duttilità di questo materiale – sentire per credere, fino al 28 gennaio –, con tempi rapidi e incalzanti, rubati quasi invisibili che rimangono nel subconscio, meccaniche stravinskiane dal suono morbido e mai enfatico.

L’orchestra resta lucida, controllata, a volte persino fredda eppure, misteriosamente, sempre espressiva. Una direzione che punta più ad atterrire che a commuovere, come per quel pedale che avvolge il dialogo finale, uno zero assoluto di clarinetto e contrabbasso prima che Rodolfo si accorga che la tragedia è già avvenuta. È questa la vera chiusa di Mariotti, più ancora dell’esplosione orchestrale successiva, perché in poche battute quasi vuote ha scovato anatomia e fisiologia di un istante capace di annientare sogni e illusioni. Così le romanze, i valzer e le quadriglie di prima sembrano condensarsi musicalmente in un La, elettrocardiogramma piatto di una stagione ormai estinta: “La jeunesse n’a qu’un temps” conclude Murger nel suo Scènes de la vie de bohème.

Ma anche la fuga finale pensata da Vick diventa un vero e proprio Addio giovinezza!, alla Camasio e Oxilia: il crollo dell’ubi consistam di giovani irriflessivi che fino a quel momento avevano solo giocato con la vita. Il regista riesce a sfuggire al bozzettismo in cui si cade costantemente con quest’opera. Tutti i personaggi “esistono” sul palcoscenico in senso etimologico: perché saltano fuori, si raccontano con pochi, semplici gesti perfettamente calibrati, di quelli nascosti, di cui non ci si accorge perché sembrano fatti di niente. Materiale immaterialità del teatro, che può prendere il volo anche solo con una guancia appoggiata su una “gelida manina”.

Piene di inventiva, magistrali le scene in soffitta, un appartamento fatiscente condiviso da studenti che farebbero preoccupare un sacco di mamme rimaste al paesello, se solo sapessero. E dalla spensieratezza al degrado il passo è brevissimo, come nei primi film un po’ sgangherati di Almodóvar – vedi la barriera d’Enfer. Ma il colpo da maestro è il ritratto di un Rodolfo vigliacco e incapace di prendersi le sue responsabilità, che lascia Mimì quando capisce che non ce la farà, esita ad avvicinarsi a lei in punto di morte e, quel che è peggio, getta via la sua “cuffietta”. Il modello potrebbe essere Angels in America di Tony Kushner, con Louis che lascia il compagno Prior malato di Aids.

Bohème

Ma nessuna di queste finezze sarebbe stata possibile senza lo sbalorditivo secondo cast visto l’altra sera, che potrebbe essere primo in qualunque teatro del mondo: uno di quei casi in cui i cantanti sono anche attori capaci di portare in scena un dramma, non solo un melodramma. Innanzitutto Matteo Lippi che ha voce splendida, lirica, emozionante, capace di inflessioni nel canto e nella recitazione, da “Che gelida manina” alle frasi attonite, sussurrate prima dello strazio finale, che non sono mai sembrate tanto importanti: “Quell’andare e venire, quel guardarmi così”. Mimì è Alessandra Marianelli che, nonostante qualche problema di intonazione, coglie alla perfezione le sfumature di un personaggio che per la prima volta sembra non avere nulla di fragile. Bravissimi e simpatici tutti gli altri interpreti, ognuno con la giusta personalità: Sergio Vitale come Marcello, Andrea Vincenzo Bonsignore come Schaunard, Evgeny Stavinsky come Colline, Ruth Iniesta come Musetta.

Al Comunale di Bologna, La bohème di Giacomo Puccini. Regia di Graham Vick, dirige Michele Mariotti (repliche: 24, 25, 27, 28 gennaio)

Immagini di Rocco Casaluci

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