Margaret dipingeva bambini dai grandi occhi, il marito vendeva i quadri spacciandoli per suoi, l’America tra i 50 e i 60 li amava. “Big Eyes” visto da due lati
Prima di tutto, le cose positive: in Big Eyes, l’ultima fatica del regista Tim Burton, non c’è Johnny Depp, spezzando così una delle più perniciose coppie artistiche in circolazione. Un tempo proficua, parliamo dell’epoca di Edward, mani di forbice e Ed Wood, nelle ultime produzioni la relazione è degenerata a livello di un incubo in cui Depp era diventato un docile fantoccio nelle mani di Burton che, fra parrucche e dentiere, lo trattava peggio di come fa una bimba di 6 anni con la sua Barbie, umiliandolo a forza di mossettine. Quindi, gioiamone.
Passando al film, racconta la storia vera di Margaret Keane, che dipingeva quadri i cui protagonisti erano bambini dagli occhi sproporzionatamente grandi. Per anni si pensò che il vero autore dei dipinti fosse il secondo marito Walter Keane, che aveva iniziato ad attribuirsi la paternità dei lavori perché a quei tempi, gli anni ’60, l’arte femminile non era presa in considerazione. Dopo aver a lungo accettato la situazione, Margaret decise di separarsi e fece causa al marito. Al processo Walter fu smascherato e lei riconosciuta come la vera pittrice.
Margaret è interpretata da Amy Adams mentre Walter è Christoph Waltz, sì, il meraviglioso attore austriaco che abbiamo imparato ad amare in Carnage e Django unchained. Però Burton lo costringe a un tour de force di gigioneria non indifferente, il che è un peccato, mentre riesce a salvarsi la Adams, brava e misurata.
Guardando Big Eyes mi è venuto in mente ciò che mi disse un’amica: “Burton, più che un regista è uno stile”. Ma se un tempo il suo stile, gotico mutevole, amorevole nei confronti dell’emarginato, riusciva comunque a trasmettere un’emozione, in questo caso ci fa emozionare solo per la moda e il design anni ’60 e poco altro.
Il film è godibile, non ci si annoia, ma alla fine non ci si aspetta niente di più: e questo non è bello. Un intrattenimento superficiale che rivela una mancanza di reale approfondimento psicologico. E se qualcuno vi ha detto che c’è dentro del femminismo non credetegli. È una vena così esile che si esaurisce in breve tempo.
Paradossalmente, l’unica cosa interessante e veramente burtoniana del film è la scelta del regista di raccontare questa storia. Soprattutto in presenza di quadri di rara bruttezza. L’opera della Keane è così kitsch che il suo successo si spiega solo perché gli americani sono quelli che mangiano il cambozola e hanno inventato l’Hummer. E il fatto che Andy Warhol pare li abbia approvati, dimostra solo che l’uomo era un vero spiritosone. Eppure, anche se per quasi tutto il film Tim Burton sparisce dietro il suo interior decorator, fa tenerezza che abbia scelto Margaret Keane come sua eroina. Ma le avrebbe fatto un miglior servizio approfondendo la sua vicenda un po’ di più.
Prima che Andy fosse Warhol
Big Eyes racconta la paradossale vicenda di Margarite Keane. Che in realtà non è solo la storia di una pittrice, ma quella di due pittori, o meglio di una pittrice sedotta, manipolata e usata per far la fortuna di un sedicente pittore. Ordinaria violenza (solo psicologica in questo caso) da bottega, del tipo che fa sempre audience, da Artemisia Gentileschi in poi.
Il film si apre con una citazione di Andy Warhol: «Quello che ha fatto Keane è magnifico! Fosse stato brutto, non sarebbe piaciuto a così tanta gente». Difficilmente, però, chi esce dal cinema nutre sentimenti benigni verso gli onnipresenti “bambini con gli occhioni”. Sembra che nessuno abbia il coraggio di dirlo, ma i quadri della Keane erano e restano kitsch, per non dire brutti.
Ma nonostante questo, i toni ora romantici ora drammatici, e soprattutto il caso giudiziario del furto d’identità, conferiscono a questo biopic il pepe sufficiente a catturare l’attenzione. E per gli appassionati di pittura, si agiunga la fotografia, forse un po’ sfocata ma abbastanza buona, dell’allora nascente sistema dell’arte, e delle tipologie dei suoi protagonisti, nella New York a cavallo fra anni 50 e 60 che ancora non immaginava l’avvento della Pop Art.
Di quest’ultima, del resto, il caso Keane costituisce un antefatto poco noto ma abbastanza significativo. Un’inquadratura didascalica ma efficace, verso metà film, mostra i poster dei quadri della Keane in vendita nelle corsie dei Mall, fianco a fianco delle famose zuppe Campbell e ben prima che Warhol cominciasse a serigrafarle.
Burton lo fa anche urlare a Christoph Waltz: quello che ha fatto Walter Keane, cioè inventare la commercializzazione dell’opera d’arte, Warhol e la sua Factory si sono limitati a copiarlo. Perché Warhol ha giocato, in parte, secondo le regole inventate da Keane.
Il punto è che l’ha fatto meglio. O, per dirla più dottamente, che ha portato coscientemente al limite concettuale un meccanismo che per Keane si riduceva a una mera possibilità di profitto. Con un gusto estetico imparagonabile. E questo è innegabile, si spera.
Interviste, recensioni e note di produzione si sono dilungate a commentare l’influenza dell’opera della Keane sulla formazione dell’immaginario di Burton. Ci perdoni il regista, ma a fronte di tanta insistenza, parafrasando la citazione di chiusura del suo stesso film, ringraziamo se, finito il caso giudiziario e mediatico, la Keane sia uscita dalla Storia.
Federico Maria Giani
Big Eyes, di Tim Burton, con Christopher Waltz, Amy Adams