“Atti umani” di Han Kang è uno di quei libri che riesce a mostrare la desolazione assoluta e a contrastarla con la forza della poesia
La Corea del Sud è, per noi occidentali, un mondo sconosciuto di cui sappiamo poco: forse solo che ‘per fortuna’ è sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti e non sotto la dittatura feroce del folle Kim Jong-un che dalla Corea del Nord minaccia il mondo di una guerra nucleare. In realtà la Corea del Sud è un paese annientato come la Cambogia, il Laos, “è successo esattamente lo stesso che nell’isola di Jeju, nel Kwantung e a Nanchino, e su tutto il continente americano quand’era ancora conosciuto come Nuovo Mondo, ovunque con una brutalità talmente invariata che è come se fosse impressa nel nostro codice genetico”, sono parole di Jin-su, ex prigioniero delle carceri sud-coreane morto suicida otto anni dopo
Han Kang racconta del massacro di Gwangju, in Corea del Sud appunto, nel maggio 1980, dopo il colpo di stato di Chun Doo-hwan, quando i militari hanno sparato sulla folla che manifestava pacificamente, torturando e massacrando migliaia di gente inerme. Nessuno si è data ragione di tanta ferocia, tanto meno l’Occidente che si è guardato bene dal denunciare il massacro e la brutale repressione di ogni diritto umano.
Ma ogni parola suona retorica di fronte alla forza straziante, crudele, insopportabile del romanzo Atti umani di Han Kang. La scrittrice, nata proprio a Gwangju nel 1970, si era trasferita a Seul nel 1979, un anno prima del massacro. Conosceva molte delle vittime, erano suoi parenti, amici dei fratelli più grandi, dei genitori, e li interroga, ritesse le trame delle loro vite prima dell’eccidio e lo strazio dei sopravvissuti, delle loro esistenze spezzate, e insieme dipinge di rosso violento, verde, viola di putrefazione dei loro corpi tumefatti, presi a calci, violati, torturati; sentiamo il tanfo delle ferite in cancrena e dei cadaveri ammassati nelle biblioteche, nelle palestre, bruciati nelle fosse comuni.
Scene così trucide da rasentare lo splatter, un po’ come le prime pagine di Gomorra di Roberto Saviano, con la massa dei cadaveri dei clandestini ammassati nella stiva della nave. Siamo paralizzati dall’orrore. Senza scampo.
Ma Han Kang insieme ai suoi protagonisti reagisce: con i volontari dell’Ufficio Provinciale si china su quell’ammasso di carni informi e sanguinolente, solleva uno ad uno quei corpi orribilmente mutilati, li lava, li depone sulle lettighe, li compone sotto fogli di plastica trasparente per contenere il disfacimento, li copre con lenzuola.Come Omero nei Sepolcri di Foscolo, che brancola tra le urne degli eroi, le abbraccia, le interroga.
Il libro diventa così un poema corale sulla fratellanza; anche il suo precedente romanzo La vegetariana, pubblicato in Italia nel 2016, è un racconto corale. È la storia di una donna che senza alcun motivo apparente decide di diventare vegetariana. Conosciamo la protagonista, Yeong-hye, attraverso lo sguardo del marito, del cognato, della sorella e conosciamo insieme loro, le tre voci narranti; il loro mondo che si scontra contro l’ostinata passività, il silenzio minaccioso della Vegetariana.
La scrittura di Han Kang è asciutta, precisa, senza pietismi, intensa, il suo è insieme racconto di una malattia, di un’ossessione, di legami famigliari e amorosi, dell’attrazione erotica, e insieme romanzo esistenziale, sul senso della vita e del suo compimento. Con l’ultimo romanzo Atti umani, l’orizzonte si ampia dai rapporti familiari a quelli sociali, politici; e assume un carattere fortemente impegnato: la scrittrice e i suoi protagonisti denunciano con fermezza il macellaio Chun Doo-hwan.
Il racconto corale delle vittime sembra prendere vita sotto i nostri occhi. È attraverso i ricordi personali dell’autrice, le testimonianze dei sopravvissuti, le loro fotografie, i documenti sulla strage del 18 maggio 1980, conservati e quasi inaccessibili negli archivi del comune di Qwangju, che Hang Kang piange i suoi morti, che sono diventati i nostri morti, vittime innocenti della brutalità. Ma cosa può aver spinto quei ragazzi ad affrontare la morte senza fuggire? “In quel momento pensavo di essere nel posto in cui dovevo essere” – scrive Hang Kang – “Ad aiutare a seppellire i morti. Non avrei potuto fare altro”.
Un gesto di pietà antico, come quello di Antigone che sfida le leggi del tiranno Creonte per seppellire i fratelli. Antigone sa che pagherà la sua pietas con la morte; i ragazzi del Centro Provinciale di Gwangju, fino all’ultimo momento, fino a quando i soldati non cominciano a sparagli addosso, a prenderli a calci, non sono consapevoli del martirio cui vanno incontro. Cantano l’Inno Nazionale e avvolgono le bare delle vittime nella bandiera Nord-Coreana.
Ma quell’Inno, quella bandiera non sono gli stessi degli assassini? Ha un senso tutto questo?
L’esercito del generale Chun Doo-hwan rientra in città e assale quei ragazzini pietosi, coraggiosi, come fossero dei rivoluzionari feroci – erano disarmati e avevano tra i quindici e diciannove anni – e massacra anche loro, come i loro fratelli appena seppelliti.
Tra le povere vittime conosciamo il timido, malinconico Dong-ho, ha solo quindici anni, ma ne ha dichiarati diciasette per poter stare al Centro provinciale ad aiutare a seppellire i morti. Deve assolutamente ritrovare il suo amico, l’ha visto cadere colpito durante gli scontri. Tornavano a casa insieme, quando sono stati travolti dalla sommossa. E lui, Dong-ho non capiva più niente. Accecato dalla paura, era fuggito. Deve espiare la colpa di aver abbandonato il suo amico. Il rimorso di essere scappato lo spinge ad aiutare chi ha bisogno. È questo uno degli atti umani, che dà il titolo al volume.
Han Kang si addentra nel labirinto delle emozioni. C’è chi vuole ricordare, per dare un senso a quelle morti, almeno di testimonianza, di lealtà, di libertà e di denuncia contro i ‘macellai’. Ma come è possibile che cinque giorni dopo l’eccidio aprissero gli uffici pubblici, le scuole, i negozi e la fontana, la fontana intorno alla quale era cominciato il massacro, riprendesse a zampillare acqua purissima.
“Non è giusto che la fontana funzioni, per amor del cielo, fermatela”, urla Eun-sook al telefono del Dipartimento di indagini pubbliche dell’Ufficio Provinciale per denunciarne l’assurdità, l’eresia. Tutto era stato cancellato. Non era successo niente. Non restava che dimenticare.
Così, come molti dei sopravvissuti, Eun-sook non può, non vuole testimoniare.Prima della tortura era una brillante redattrice di una casa editrice dissidente, dopo era diventata una poveraccia, lavorava ossessivamente in un archivio, non vedeva più nessuno, non un’emozione, non un ricordo. Non poteva ritornare ai giorni di continui stupri, alle emorragie, alle contrazioni che la perseguitano nei sogni anche oggi, dopo dieci anni.
Ma la forza ultima di questo romanzo sta nella capacità di Han Kang a inserire in questo mondo di desolazione momenti di poesia: nei paesaggi, nei visi, negli atteggiamenti, nel modo di muoversi, nelle relazioni tra i vari personaggi, i vivi e i morti.