Steven Cantor racconta con l’oggettività del documentarista la parabola di un personaggio davvero unico, l’appena 28enne ballerino ucraino che, diventato a 19 anni la più giovane etoile nella storia del Royal Ballet londinese, se ne andò sbattendo la porta. Complici senza dubbio stravizi, sbronze e psicofarmaci, ma anche gli abissi insondabili dell’animo umano. Che il film esplora con intelligenza
Sergei Polunin, il protagonista di Dancer, è nato nel 1989, l’anno simbolo della caduta del Muro di Berlino, in una cittadina dell’Ucraina, che dopo la rovinosa fine dell’Unione Sovietica ha esportato in mezzo mondo manovali con la fama di ubriaconi, e badanti dal sorriso mesto. Anche la famiglia Polunin ha vissuto questa triste diaspora, guidata però non semplicemente dal desiderio di sopravvivere e mettere da parte qualche soldo. No, perché fin da bambino Sergei ha dimostrato di avere un talento fuori dal comune e quindi gli sforzi della sua famiglia, gli immensi sacrifici che tutti i suoi membri hanno affrontato, puntavano verso un unico, ambizioso obiettivo: permettergli di studiare danza, prima a Kiev e poi a Londra, alla prestigiosa Royal Ballet Academy.
Obiettivo raggiunto, apparentemente in scioltezza e bruciando tutte le tappe: a diciannove anni Sergei era primo ballerino, il più giovane nella storia dell’istituzione inglese. L’inizio di una carriera sfolgorante? Non proprio. A ventidue anni, all’apice della gloria, dopo svariati tatuaggi, molte sbronze, psicofarmaci a gogo e droghe in quantità, è crollato e se n’è andato sbattendo la porta. Lasciando tutti a bocca aperta, davanti all’insondabile mistero di come si possa riuscire a tenere insieme (senza disintegrarsi) un talento sovrumano e una fragilità fin troppo umana.
Un mistero che il film di Steven Cantor, pluridecorato documentarista di lungo corso, candidato all’oscar nel 1994 per Blood Ties: the Life and Work of Sally Mann, non ha l’ambizione di risolvere, limitandosi ad ascoltare e osservare, seguendo Sergei Polunin per quattro anni nei suoi infiniti spostamenti, nelle tante giravolte al cardiopalma di un ragazzo che non è ancora arrivato ai trent’anni e già sembra aver vissuto dieci vite: fra cadute vertiginose e improbabili risalite, “morti” umilianti e rinascite miracolose. Il tutto senza giudicare né incensare, ma più di una volta non potendo fare a meno di incantarsi davanti al virtuosismo di un corpo che sfida la legge di gravità, e conquista lo spazio in un modo che a noi comuni mortali sembra semplicemente impossibile.
L’hanno definito il James Dean della danza e di sicuro Polunin è di una bellezza strabiliante: vederlo danzare (volare, davvero) su qualunque palcoscenico è un’esperienza che toglie il fiato. Ma l’interesse di questo particolare reportage va al di là del piacere estetico. La parabola di Sergei Polunin, che come un’araba fenice non si stanca di rinascere dalle proprie ceneri, è straordinariamente affascinante per quello che racconta della condizione umana, perennemente in bilico fra libertà e dover essere, fra il desiderio di costruire (una casa, una famiglia, una carriera) e la voglia di fuggire e distruggere. Per essere finalmente liberi di ricostruire da un’altra parte, in un altro modo, interpretando un altro sé stesso. E magari ritrovarsi di nuovo al punto di partenza. O forse no.
Un po’ quello che è successo al 28enne Sergei, che a un certo punto ha deciso di attaccare le scarpette da ballo a un chiodo, ma poi ha voluto girare, come una sorta di addio alla danza, un video diretto da David LaChapelle sulle note di Take me to Church di Hozier. Pubblicato su YouTube, il filmato è diventato in poco tempo un fenomeno da milioni di visualizzazioni (attualmente oltre 20 milioni). Perché forse, da sé stessi non si fugge proprio mai. E al di là dell’interesse per la danza, quello che rende affascinante questo documentario è il tentativo di esplorare gli abissi insondabili dell’animo umano. Se poi, per caso, Scarpette rosse di Powell e Pressburger fosse uno dei vostri film del cuore, Dancer è semplicemente imperdibile.
Dancer, documentario di Steven Cantor, con Sergei Polunin