Domenica notte, nelle stesse ore, si sapranno i risultati delle elezioni italiane e della corsa alle statuette: e tra le tante nomination di “La forma dell’acqua” di Del Toro (13), “Dunkirk” di Nolan (8) e “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” di McDonagh (7), cinque le ha conquistate anche il film del quasi esordio di Greta Gerwig. Decisamente riuscito. è “Lady Bird”, che racconta l’ultimo anno di liceo, le ansie, gli amori e le speranze di una brillante ragazza di Sacramento che sogna la grande città, la cultura, New York: battagliando con la madre, la sua insicurezza e molti problemi economici
Faccio parte di quel non piccolo gruppo di giornalisti cinefili professionali (definizione più precisa di “critici”, forse) convinti che un film, soprattutto se americano, si giudica in primo luogo dalla qualità e quantità dell’azione che c’è dentro. In altri e più espliciti termini, dal numero di morti ammazzati che si vedono. Quindi lunga vita a John Ford e Sam Fuller, a Martin Scorsese e Quentin Tarantino. Su questa base ho sempre nutrito una rispettosa (e spesso ammirata) diffidenza verso “i film di Greta Gerwig”, che erano già “i film di Greta Gerwig” prima che debuttasse nella regia: un po’ in sordina nel 2008 con Nights and Weekends, ma soprattutto ora, e ottimamente, con Lady Bird, fresco vincitore di due Golden Globe (per la miglior “commedia” e la miglior protagonista, Saoirse Ronan, perfetta, già alla terza candidatura all’Oscar ad appena 23 anni, dopo Espiazione e Brooklyn) e forte di 5 nomination, tra cui film, regia e sceneggiatura originale (sempre sua).
L’oggi 34enne Gerwig, nata a Sacramento, California, che indubbiamente, nel tempo, ha affinato e reso sempre più compiute e complesse le sue doti attoriali, mi è un po’ sempre sembrata la classica espressione di un mondo, di un modo di far cinema indie elegante e psicologicamente raffinato ma un po’ troppo pulito, perbene, in difficoltà quando voleva gridare con forza verità scomode, sgradevoli (per esempio sul tema dei rapporti di potere, anche nelle storie sentimentali, tra maschi e femmine), che pure in controluce si intuivano benissimo nella trama, nelle atmosfere, a momenti anche nella vis polemica di attori e attrici. Come in Frances Ha, un film tutto sommato riuscito, opera del compagno di Greta, il newyorchese Noah Baumbach, in cui Gerwig, pur titolare di un personaggio forte e deciso, sembra sempre sul punto di esplodere in una vera scena madre ma alle fine non lo fa mai.
Il (semi) esordio di Lady Bird, con la forzata impossibilità, per ragioni di età, di interpretare le due protagoniste, Christine/Lady Bird e la madre (Laurie Metcalf), le ha permesso di concentrarsi su scrittura, messa in scena e direzione degli attori (lasciati molto liberi, ha detto lei), tutte in ottimo equilibrio. Al servizio di un racconto di formazione classico che allinea, all’alba del nuovo millennio (è il 2002 ed essendo la location la città natale di Gerwig, le Torri Gemelle sono già sullo sfondo), le tematiche forti di una liceale all’ultimo anno di frequenza – in un’odiata scuola cattolica – intelligente e curiosa, in difficili condizioni economiche (e Gerwig dà peso alla cosa) e in ragionevole rapporto di odio/amore con una famiglia a sua volta complessa (mamma e fratellastro su tutti) la sua parte; c’è posto per la tormentata scoperta dell’amore con l’altro sesso (il suo primo lui si rivela gay, il secondo piuttosto stronzo, è Timothée Chalamet superstar dell’ultimo film di Luca Guadagnino) e l’amicizia combattuta nei confini del gender, con Julianne e Jenna, l’amica di scuola e la riccona sciupa maschi, per l’ansia di crescere lontano da una città troppo piccola (che si potrebbe però anche rimpiangere) e le speranze per il futuro in una New York university, dove vuole andare e andrà (“where culture is,” appunta lei).
“Nominata” come miglior regista otto anni dopo la Katherine Bigelow di The Hurt Locker, che l’Oscar da autrice lo vinse (buon presagio?), se la vedrà con Christopher Nolan (Dunkirk), Jordan Peel (Get Out), Paul Thomas Anderson (Il Filo Nascosto) e Guillermo del Toro (La forma dell’acqua). Domenica notte il verdetto, e forse nell’anno della rivolta femminile contro molestie e angherie hollywoodiane, potrebbe toccarle, a nome di tutte, un risarcimento collettivo. Che non sarebbe affatto immeritato: Lady Bird è un film ben centrato, che sposa qualche spunto quasi auto-biografico (tra le fonti d’ispirazione, Sacramento e la scrittrice/concittadina Joan Didion) con un tema molto mainstream come la ricerca d’identità dei millennials. Gerwig costruisce ponti tra i suoi due mondi, la piccola Sacramento e la grande Manhattan, all’apparenza lontanissime, ribaltando stereotipi e senza edulcorare le crudezze dell’adolescenza e dei rapporti genitori-figli (ma anche ragazzi-ragazze) e sfuggendo anche brillantemente ogni retorica giovanilista. Lady Bird sviluppa anche, con sfumature intense il rapporto madre-figlia, elemento importante perché un po’ in controtendenza all’interno dell’immaginario del cinema indipendente americano recente più alto e titolato, solitamente abituato a confrontarsi prevalentemente con la figura paterna, nei titoli diretti Wes e Paul Thomas Anderson o dello stesso Baumbach.
Seguire le proprie passioni, incontrare le proprie delusioni, porterà alla fine Christine a una paradossale riconciliazione con la propria identità rifiutata, con quelle radici che ignorava di amare. è la nostalgia, nel senso più vero della parola, una dolce, forte memoria di un tempo che è volato via troppo presto. Lo spiega bene la protagonista Saorsie Ronan: “Il film mostra che una persona può avere dei difetti, non essere perfetta, ma al tempo stesso restare davvero speciale. E avere qualcosa da offrire. E se tu scappi via da te stesso, è perché pensi che sia la via migliore per ritrovare te stesso. In questo senso la casa ne è la miglior metafora”. E infatti Lady Bird è anche un film sui piccoli momenti: è qui che si annida il potere cinematografico di Greta Gerwig.
Lady Bird di Greta Gerwig, con Saoirse Ronan, Laurie Metcalf, Tracy Letts, Lucas Hedges, Timothée Chalamet, Beanie Feldstein, Lois Smith