Il libro di poesia #5: “Il cadavere felice” di Viola Amarelli

In Interviste, Letteratura

Viola Amarelli è un’autrice singolare nel panorama poetico italiano. La sua capacità di mescolare registri diversi e di accostare alla categoria della complessità versi freschi e autentici rende la lettura dei suoi testi un’avventura intellettuale ricca di sorprese. Il suo ultimo libro, Il cadavere felice, pubblicato per le Edizioni Sartoria Utopia lo scorso anno, è un testo con una struttura ben definita in cui si percepisce la presenza di una voce che emerge direttamente dal fondo delle cose. Alla poetessa stessa abbiamo chiesto di farci entrare nel suo laboratorio poetico.

Viola Amarelli è un’autrice singolare nel panorama poetico italiano. La sua capacità di mescolare registri diversi e di accostare alla categoria della complessità versi freschi e autentici rende la lettura dei suoi testi un’avventura intellettuale ricca di sorprese. Il suo ultimo libro, Il cadavere felice, pubblicato per le Edizioni Sartoria Utopia lo scorso anno, è un testo con una struttura ben definita in cui si percepisce la presenza di una voce che emerge direttamente dal fondo delle cose. Alla poetessa stessa abbiamo chiesto di farci entrare nel suo laboratorio poetico.

Cara Viola, partiamo dal titolo che spesso contiene in nuce il senso di un’intera raccolta. Il cadavere felice sembra rifarsi al Cadavre exquis del movimento surrealista; ho letto bene?
Sì, già il titolo è in parte un omaggio al noto gioco letterario surrealista ma è anche estrapolato da un testo che nella raccolta prova a delineare una metafora dei processi di degrado sociali che stiamo vivendo, processi spesso occultati ed edulcorati dai mezzi mediatici.

Si sente fra i testi la presenza di una voce che ronza intorno a cose sberciate, tipiche dei nostri tempi. Vi percepisco una tensione etica e volevo sapere se ti ci ritrovassi.
La struttura del libro intreccia e alterna, in effetti, due componenti: la prima è metaletteraria e l’altra, appunto, etico-politica. Entrambe tendono a cogliere e analizzare le crepe, o, se vuoi, le forme (non sempre progressive direi) del mutamento in cui siamo immersi.

Dal “chaos” nella prima poesia si arriva all’“ossoessenza” della seconda. Come avviene questo passaggio?
Il passaggio che rimarchi, dal vuoto “chaos” all’”ossoessenza” avvengono in un unico testo che è all’inizio della sezione “narrazioni” dove in qualche maniera-misura s’indaga l’uso-abuso della categoria dello storytelling, sottolineando per quanto ovvio come sia nella natura delle cose avere un inizio e anche una fine e come al di sotto di qualunque sceneggiatura ci sia questo dato fattuale ineluttabile. La dichiarazione di poetica che vi è contenuta (“aironi, fenicotteri, libellule”, dove aironi si riferisce ad Antonio Porta, fenicotteri a Neruda e libellula alla Rosselli, rispetto al “ruolo..della poiana”) è – come giustamente osservato da  Giacomo Cerrai in una recensione  – “la ricerca e possibilmente la scoperta dell’essenziale che è possibile dire con il linguaggio che ci è concesso in dote, depurando il linguaggio stesso dai fronzoli che ne costituiscono il velame primario. Fronzoli che sono anche di fatto culturali, prodotti di una esondazione del mondo sulla scrittura, in sostanza alibi quando si rigetta la fatica di sezionare il reale preferendone il topos o la mera rappresentazione” .

D’altra parte c’è nella tua poesia un vettore che tende allo sbiadire, come si legge in questo testo:

una città fantasma verde e gialla
al centro di ogni solitudine
sbiadisce, si prosciuga
giorno a giorno svuotata
di persone, suoni ed erbe
la valle e gli elefanti, qui a occidente.

In che città siamo? In che cosa essa rispecchia l’Occidente? E in che modo il cadavere di questa città può essere felice?
La dimensione metamorfica, provvisoria di ogni esperienza è uno dei vettori della mia scrittura che nella poesia da te citata prende la forma di uno spopolamento da “città fantasma” come stanno diventando non solo i piccoli paesi delle zone interne ma anche ampie aree urbanizzate (luoghi da archeologia industriale, capannoni dismessi, centri commerciali chiusi e abbandonati), segnali appunto di un declino occidentale dove invece della freccia progresso sembra emergere un ritorno a ere geologiche passate e lontanissime, quasi un rewind che non definirei però né felice né infelice, a prescindere da ogni discorso di decrescita “felice”, diciamo che è la costatazione di un “cosi è”.

Lo svanire può essere fiammingo, come dichiari in un altro testo. Ci leggo qualcosa di ossimorico – l’aggettivo fiammingo tendo ad associarlo a colori e tinte accese, per questo una morte fiamminga mi fa venire in mente istintivamente un’esplosione, non qualcosa che sbiadisce dolcemente. Vorrei quindi che mi spiegassi di quante gradazioni si compone questo svanire.
L’aggettivo fiammingo qui ha l’accezione di campiture e colori intensi, netti, precisi, a indicare (o voler indicare) una consapevolezza estrema degli eventi, tale da prefigurare o reimmaginare morti precedenti, finali di partite già giocate. Vero comunque che utilizzo spesso l’ossimoro, in genere come grimaldello per ribaltare una presunta monoliticità del reale e per mostrare come poli apparentemente opposti siano, nei fatti, complementari.

Una monoliticità che la tua scrittura tenta di sgretolare, divisa com’è fra una voglia di scarnificare, giungere appunto all’essenza delle cose, e una più irriverente ricerca di preziosità lessicali e sintattiche. Questo duplice moto è in qualche modo controllato? Oppure nasce così, seguendo impulsi diversi? In poche parole, a livello stilistico, quando scrivi, cosa cerchi?
La scrittura per me è polifonica e plurilinguistica (tanto per citare Antonio Porta: Non mi sono mai appagato di una forma, ho sempre cercato diprovocarne molte). L’alternanza di timbri e stili è connaturata all’esigenza di tarare la funzione euristica, di conoscenza, che ogni espressione artistica secondo me riveste, a un flusso esperienziale che si rivela magmatico e multiforme. La tendenza alla rarefazione del verso, della parola, è in questo libro (ma anche nel precedente L’ambasciatrice) volta a cogliere il caos del chiacchiericcio, della distrazione, del superfluo, tramite un vettore capace didepurarlo con un perfetto, ancorché irraggiungibile, silenzio. La scelta invece di una scrittura più espressionista – o, come dice un critico, di taglio “cubista” e “gaddiano” – è qui concentrata nella sezione “demoni” che affronta la tematica delle pulsioni, dei fantasmi e delle paure che ci agitano individualmente e collettivamente, riproducendone in parte l’affollato e incontrollato dinamismo. Di fondo è la materia trattata che, in qualche modo, “pretende” un suo stile, non c’è, per quanto mi riguarda, un’opzione predefinita ex ante.

Il tuo versificare ha una gittata lunga e affonda le mani nel magmatico, però si nota sia a livello testuale sia a livello macro-testuale una volontà di contenere il caos secondo un ordine ben definito. Vorrei che ci raccontassi come nasce la divisione in cinque sezioni, e se essa ha un senso di rivelazione per l’intera raccolta.
Probabilmente la scrittura è da sempre un tentativo di dare ordine al mondo, logos e mythos sin dalle origini cercano di “conoscere” e spiegare l’esperienza umana, anche per arginarne l’entropia, ma personalmente ritengo che un grado di entropia sia costituivo del nostro essere al mondo. Difondo i due temi del libro (quello metaletterario e quello etico-politico) si alternano in ognuna delle sezioni, costruite però sulla predominanza di volta in volta di uno dei due: si parte da una riflessione sulle “narrazioni” e sulle radici di una poetica, per indagare poi esperienze liminali (“cronache”) ma anche proiezioni fantasmatiche (“demoni”) o modelli letterari evocativi quale la poesia classica cinese (“fantasmata”). La sezione conclusiva (“cerchi”) prova a trarre le somme delle precedenti, delineando una sorta di riepilogo, equilibrato – pur nella confluenza di timbri diversi – da un’intonazione parzialmente mistica

Entriamo nel laboratorio poetico di Viola Amarelli. Quali sono le fasi della tua scrittura? Come arrivi ad organizzare il testo così come appare?
All’inizio c’è sempre qualche aspetto paradossale o stranito del cosiddetto reale, ma spesso anche una fascinazione sonora di parole, che attirano e innescano la scrittura. Le fasi sono diverse a seconda se si tratta di un’opera-progetto, tipo un poemetto, che richiede un’impalcatura più solida e un controllo più rigoroso ma che poi nella stesura risulta anche più semplice, scorrendo su binari già definiti a monte, o di un’opera-processo, in cui la scrittura procede quasi inconsapevolmente, arrivando a conclusioni impensate. In entrambi i casi, comunque, il labor limae è pressoché minimo, i testi che non mi convincono li abbandono, salvo eventualmente a ripescarli dopo molto tempo e farne oggetto di sottrazione, cancellazione, che lascia solo un’eco del testo originale.

E questo libro è nato più come opera-progetto o opera-processo? A me sembra rientrare più nella seconda categoria – che è anche quella per la quale propende la mia scrittura – e la razionalizzazione la avverto come una fase successiva, di ordine di quel chaos iniziale che dicevamo all’inizio, ma posso sbagliarmi…
No, non sbagli, questo è decisamente un libro che nasce da alcuni nuclei che si sono auto-chiariti nel corso della stesura, il che poi, a mio avviso, è anche una caratteristica molto interessante della creatività: non sapere cosa si scopre e dove si arriva se non alla fine del viaggio.

Nei tuoi libri non mancano notazioni sarcastiche contro lo stato attuale della produzione poetica. Quali sono i maggiori vizi della poesia contemporanea, secondo te?
Fondamentale la poesia italiana contemporanea la trovo mediamente più interessante della narrativa, con punte di eccellenza in molte delle varie aree in cui si articola. Parlerei di un unico vizio, che poi è storico, perlomeno dalla Controriforma, nella cultura nazionale: una sorta di provincialismo con la tendenza a raggrupparsi in nicchie e nicchiette, ultimamente anche accademiche in senso stretto, che diventano spesso monadi quando non cordate.

Qual è il libro di poesie che non hai ancora scritto, ma che vorresti scrivere?
Mi piacerebbe riscrivere, ma proprio come il Pierre Menard borgesiano, il De rerum natura di Lucrezio e i Mercian Himns di Geoffrey Hill.

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