La celebre opera di Gluck, per la prima volta alla Scala nella versione francese del 1774, è un capolavoro per come la musica penetra nel racconto scenico. L’orchestra sale e scende su una pedana mobile al centro del palco, mentre le coreografie di Shechter accompagnano il salvataggio più famoso della mitologia antica
Anche l’opera ha avuto le sue riforme costituzionali. Michele Mariotti e Juan Diego Florez ce lo ricordano alla Scala fino al 17 marzo con il capolavoro di Gluck: non l’Orfeo che tutti si aspetterebbero, ma l’Orphée, versione francese del 1774, in scena per la prima volta nel teatro milanese.
Non si contano le riscritture in musica della discesa agli inferi del cantore più famoso della mitologia, un uomo la cui amarezza metafisica arriva a piegare gli dei stessi, che gli concedono il tentativo di un salvataggio nell’aldilà dell’amata Euridice, salvo poi perderla una seconda volta. Ma gli dei nei miti non fanno che commuoversi, così gliela restituiscono di nuovo.
L’Orphée, come il precedente Orfeo (Vienna, 1762), è un capolavoro per come la musica penetra e si espande nel racconto scenico. Non c’è granché come psicologia o evoluzione dei personaggi. Eppure le ampie arcate musicali, a partire dalle descrizioni delle furie infernali che evaporano alle soglie dei campi elisi, riescono comunque a costruire un’azione in musica di potenza sconcertante. Il fatto è che il riformatore Gluck vuole ripulire l’opera seria dal caos metastasiano, il cui “bel disordine” aveva condotto a trame incomprensibili, oltre che a continui abusi dei cantanti con virtuosismi imposti a scapito del dramma. Era quindi necessaria una sintesi, un ritorno all’ordine e alla natura, intesa anche come spontaneità, contro l’artificio barocco.
Ecco spiegata la gran riforma, riassunta dallo stracitato avvertimento di Gluck e Calzabigi nella prefazione all’Alceste: la musica deve servire la poesia, intesa sia come costruzione del dramma, sia come chiara, fresca, dolce e un po’ impulsiva espressione di naturalezza. Insomma è questa la «bella semplicità» invocata da Gluck, che con i suoi recitativi accompagnati e le accurate scelte timbriche ritrova l’equilibrio tra musica e parola: un equilibrio necessario per l’opera dell’avvenire, con Wagner in agguato nel secolo successivo.
La scelta di eseguire la prima delle versioni francesi – Berlioz ne scriverà un’altra nell’Ottocento – al posto dell’Orfeo viennese non è solo una curiosità da nerd: da una parte perché si tratta di opere quasi distinte, dall’altra perché la messinscena di John Fulljames e del coreografo Hofesh Shechter, già vista al Covent Garden nel 2015, è pensata proprio per l’Orphée, non per l’Orfeo. In particolare i balletti aggiunti da Gluck – nel secondo atto, con pagine dal Don Juan – o ampliati – nel finale – aumentano a dismisura l’importanza delle coreografie e, anche se quelle di Shechter non paiono narrative in se stesse, presentano un evidente valore drammaturgico nell’economia dello spettacolo.
Protagonista dell’opera è l’orchestra, posta al centro del palco su una pedana che può sprofondare o sollevarsi verso grandi pannelli in legno mobili disegnati da Conor Murphy, che modificano, sezionano lo spazio di continuo, lasciando filtrare dall’alto fasci di luce trascendenti. Intorno all’orchestra i ballerini della Hofesh Shechter Company si raggruppano e si disgregano confondendosi tra i coristi, a volte con scatti meccanici, altre con fluida sensualità, altre ancora con movimenti vorticosi da rito primitivo. Isolati in proscenio, i cantanti si aggirano tra queste geometrie che sembrano amplificare la loro solitudine.
Florez risolve da grande artista una parte scritta per haute-contre, nonostante alcune difficoltà negli acuti. E se nel primo atto, con Objet de mon amour, si avverte una certa uguaglianza nel fraseggio, già nel secondo e soprattutto in J’ai perdu mon Euridice, con il suo timbro metallico, riesce a esprimere un eroismo disperato che dà i brividi. Elegante e distaccata l’interpretazione di Christiane Karge. Bravissima Fatma Said come Amour in total gold, parte in cui dimostra musicalità e doti sceniche insieme.
Quanto a Mariotti, la sua direzione è il risultato di un lavoro profondo sui colori dell’orchestra, sulle diverse altitudini musicali tra paradiso e inferno, sugli accompagnamenti e i ritornelli delle arie intesi a volte come lamenti, altre come echi. L’unica riserva è che tra le temperature espressive comunicate dall’orchestra, attraversate sempre con ordinata passione, manca forse il tragico, tanto che si potrebbe concludere che in quest’opera, almeno nella lettura di Mariotti, ci sia più vita che morte. Soprannaturali gli assolo del flautista Marco Zoni e dell’oboista Armel Descotte.