Frida Kahlo all’anagrafe si chiama Magdalena Carmen Frida Kahlo Y Caldéron. Lo sapevate? Il Mudec apre le porte a Casa Azul, fino al 3 giugno.
È difficile dare giudizi su un’ennesima mostra su Frida Kahlo senza chiedersi se davvero ce ne fosse così tanto bisogno e soprattutto senza chiedersi quanta incidenza la parte commerciale possa avere e quanto invece vi sia un coraggioso investimento artistico.
Ormai è assodato, Frida fa vendere, Frida è forte, come donna, come artista e soprattutto nella percezione merceologica che l’ha elevata a icona, manifesto di se stessa, politico, di stile e di moda. Se per assurdo fosse ancora in vita e fosse su Instagram, certamente sarebbe tra le maggiori influencer.
Eppure, nonostante il bookshop super accessoriato di ninnoli e chincaglierie inneggianti la febbre caleidoscopica da “Fridakahlomania”, questa mostra convince.
Solo un anno fa Palazzo Albergati a Bologna la propose come punta di diamante dell’Arte Messicana, ma non convinse pienamente la riuscita, forse per l’allestimento molto tortuoso e diviso per più piani, l’immagine di una ostinata vittima d’amore cieco, le sofferenze e sfortune che incentrarono in qualche modo la sua pittura.
Oggi il Mudec decide di celebrarla al contrario, cogliendo l’occasione del centenario dalla sua nascita e lo dichiara da subito, sin dalla prima sala, in cui a chiare lettere il taglio curatoriale prende le distanze dal mito creatosi attorno alla biografia dell’artista, per riportarne al centro le opere, le idee o più semplicemente, la routine.
Lo fa esponendo materiale intimo, privato, come effetti personali, fotografie, lettere, libri, cartoline, medicine provenienti dall’archivio di Casa Azul, che la rende a tutti gli effetti, finalmente, fragile. Evviva.
Sì, perché Frida Kahlo, che la si ami o meno, rappresenta un po’ ciascuno di noi nella sua ostinazione, nel suo coraggio verso la vita, ma anche nelle sue fanciullesche dipendenze, coerenti incertezze, malcelate insicurezze che la fanno più e più volte inciampare sul volume ingombrante dell’amore verso Diego Rivera.
“Due incidenti ho avuto dalla vita, uno sei tu” canta Brunori citandola: la mostra la fa tornare indietro, nubile, ragazza, figlia, bambina, semplicemente se stessa.
Dal 1 febbraio al 3 giugno 2018 la retrospettiva ospita dopo 15 anni tutte le opere del Museo Dolores Olmedo di Città del Messico e dalla Jacques and Natasha Gelman Collection.
Le sale sono ampie, senza un percorso obbligato. La fruizione passeggia libera nello spazio, guidata dalla propria curiosità, alla scoperta di fotografie, dipinti, corrispondenze con amici stretti.
L’allestimento dai colori pastellati e ariosi nelle sale maggiori si apre in verde, che per Frida era portatore di cose buone e che fa da richiamo al nastro verde dell’autoritratto con scimmie, posto al centro della sala.
Si prosegue con la famiglia: fotografie dall’infanzia all’adolescenza in cui compaiono i tratti fieri e determinati della sua grande carismatica personalità. Frida guardava l’obiettivo come si guarda un interlocutore. La sua fierezza e malizia adolescenziale affascinano lo sguardo, che però non può evitare di notarne quasi l’annullamento nella sala successiva, attraverso la devozione ossessiva per il grande amore della sua vita: Diego Rivera.
Si arriva poi all’impegno politico, alla sofferenza in mezzo ai Gringos, negli States, ma anche alla rabbia verso un mondo corrotto, in cui i valori si vendono in nome del denaro.
Prima di concludere, un cammeo. Frammenti di un filmato a Casa Azul: lei e Diego. La riuscita del climax emotivo è struggente, come la più perfetta tra le tragedie greche l’amore cova in seno un velo malinconico, triste. Ed ecco che si scioglie definitivamente nella sala successiva, l’ultima, in cui il colore del mare e del cielo predominano, come la speranza, riposta nelle preghiere di guarigione chieste agli amici e ai dottori.
La mostra si chiude con “Columnarota”, in cui si ritrae in primo piano, vestita col solo busto e spezzata in due da una colonna ionica che la regge al posto della spina dorsale. Spezzata e sorretta. La mostra ce la restituisce così, intensa, vera. Sempre.
La tendopoli allestita come bookshop stride con la sensazione di pienezza d’animo raggiunta durante la visita, ma si sa, le mostre, anche le più belle, durano il tempo di un’emozione.
Così pure il marketing.
Frida Kahlo. Oltre il mito, a cura di Diego Sileo, Milano, MUDEC, fino al 3 giugno.