Un quasi Oscar per Willem Dafoe, ottimo protagonista del film di Sean Baker che è però un tripudio di vitalità, anche disperata, tutta al femminile. Nei sobborghi di Orlando, tra coloratissime architetture kitsch e vite disperate senza soldi nè padri, Mooney (Brooklynn Prince) e Jancey (Valeria Cotto), sette anni o giù di lì, vivono le loro scorribande, quotidiane e senza regole, tra prati e fast food
Non fatevi ingannare dalle tante e meritate nomination (all’Oscar e al Golden Globe, allo Screen Acrors Guild Award e al Bafta) ottenute tutti dal suo eccellente protagonista Willem Dafoe: Un sogno chiamato Florida, che ha chiuso alla grande l’ultimo Torino Film Festival, è un film sostanzialmente al femminile. Grazie alle sue straordinarie protagoniste innanzi tutto, quelle piccole per prime, Mooney (Brooklynn Prince) e Jancey (Valeria Cotto), sette anni o giù di lì ciascuna, ma anche quelle grandi, Bria Vinaite (che è Halley, la mamma di Mooney) e Mela Murder, nel ruolo della madre di Scooty (Christopher Rivera), amichetto complice e succube delle due bambine/adulte, che impariamo a conoscere già nelle prima esilarante sequenza.
Moonie, Scooty e Jancey, prototipi di un’infanzia vissuta senza vere figure paterne, passano le loro spensierate e al tempo stesso drammatiche giornate in un’infinita scorribanda tra prati e fast food, case miserrime e deprimenti mall, in una periferia americana desolata eppure affascinante e avventurosa, piena di dolori e sorprese, soprattutto per dei bambini liberi fino all’abbandono: perché siamo nei pressi del Walt Disney World Resort di Orlando, nella Florida del titolo, terra del divertimento obbligatorio e della disperazione inevitabile, se si vive come questi protagonisti.
Vivono tutti in uno di quei motel coloratissimi e squallidi, alle prese con madri che ogni giorno combattono per farli sopravvivere, pigramente perseguendo ogni tipo di soluzione (prostituzione compresa) per restare con le loro, a modo loro adorate, creature. Nessuna, nessuno ha qui un lavoro stabile, e tutti, tutte soprattutto, bevono, fumano ciò che capita, in qualche modo sforzandosi di tenere i bambini lontani dai pericoli e dalla perdita di dignità che tocca loro quotidianamente. Sono gli “hidden homeless”, i senzatetto nascosti, un prodotto della crisi economica del 2008 , e Baker li racconta con affetto, senza mai spiarli dal buco della serratura né analizzarli al microscopio: e il rispetto e la compassione con cui li osserva li fa irresistibili, soprattutto le più piccole.
Un qualche, contraddittorio sforzo per arginare le conseguenze peggiori di queste vite allo sbando lo mette in campo Bobby (Dafoe), manager dello squallido Magic Castel Hotel dove abitano, un uomo semplice che non ha dimenticato la civiltà dei rapporti, pur essendo costretto a far spesso la voce grossa per tenere insieme le ragioni del business (suo, e soprattutto dei suoi datori di lavoro) e quelle della tenerezza verso le grandi e piccole esistenze che davanti a lui ogni giorno si arrabattono per farcela, possibilmente vivendo in allegria, divertendosi magari anche un po’.
Questo sesto film diretto dal newyorchese Sean Baker, che è anche autore e produttore di quasi tutti i suoi film (tra cui sono da ricordare Prince of Broadway, 2008, e Starlet, 2012, premiati a Locarno e Torino, e il più recente Tangerine , 2015, passato al Sundance Festival), mostra un notevole equilibrio d’insieme, una straordinaria freschezza tematica (la sceneggiatura è del regista e di Chris Bergoch) e una grande luminosità, brillantezza anche cromatica (tra gialli, viola e azzurri), grazie alla fotografia di Alexis Zabe che è davvero un’altra protagonista del film.
Baker, regista dallo stile indipendente ma per nulla elitario, affronta una materia pericolosa, a forte rischio di pietismi e moralismi in agguato, con una bella dose di allegria, scegliendo il punto di vista dei bambini e mettendo la cinepresa in più occasioni letteralmente alla loro altezza. Scooty, Jancey e Moonie vivono ogni difficoltà come un’occasione per creare scompiglio, provocare gli adulti e divertirsi alle loro spalle, forse perché questa è la vera morale della vita che hanno imparato dalle loro madri e dal mondo che li circonda. Uno spirito iconoclasta che è anche l’unica possibilità di salvezza, un filtro salvifico tra loro a un mondo chiaramente intollerabile. E il film diventa una vera sponda, divertendosi a giustapporre lo squallore delle camere, delle strade e dei motel, ai colori vivaci, all’architettura esagerata e grottesca di una realtà votata al divertimento senza remore. Perché anche il Magic Castle Hotel, in fondo, o il Futurland Hotel dove vive Jancey sembrano costruzioni da parco di divertimenti. E l’outlet discount di giocattoli, a due passi dalle loro stanze, regala un bonus a buon mercato per tutti, grazie a Disney e ai suoi scarti invenduti.
Un sogno chiamato Florida si offre con l’energia irrequieta e vitale (sotto sotto anche disperata, certo) dei suoi tre bambini protagonisti, e si può dire che le piccole Mooney e Jancey non potevano che finire la loro storia in un sogno, un’illusione da show-business come la casa di Biancaneve che sta al centro del Resort di Orlando (come di tutti i parchi a tema disneyani): allo stesso modo in cui Mia Farrow scappa (e per un poco si salva) dentro lo schermo empatico, dentro lo script favoloso (nel senso di relativo a una favola) dell’alleniano La rosa purpurea del Cairo.
Un sogno chiamato Florida di Sean Baker, con Willem Dafoe, Brooklynn Prince, Bria Vinaite, Valeria Cotto, Christopher Rivera, Caleb Landry Jones, Macon Blair, Karren Karagulian, Sandy Kane, Cecilia Quinan