La disciplina del canto

In Musica, Weekend

A tu per tu con Paola Folli: dal coro della chiesa al prossimo album ( gli Elii e Fabio Treves ospiti, un brano di Bisio) e il resto, X- Factor incluso

Nome: Paola Folli. Professione: cantante. Ultima volta che l’abbiamo ascoltata: il 22 dicembre scorso, nell’ambito della rassegna jazz Area M, al Teatro Leonardo, in quintetto con Diego Baiardi (pianoforte), Marco Ricci (basso), Daniele Comoglio (sax) e Maxx Furian (batteria). Classe 1965,  Paola vanta un’esperienza di cantante a tutto tondo: corista per conto di numerosi artisti pop (Mina, Elio e le Storie Tese, Antonacci, Spagna, Vasco, per citarne alcuni), nonché interprete delle colonne sonore di film d’animazione, tra cui Hercules e Shrek 2. Gli ultimi anni l’hanno vista soprattutto nel ruolo di vocal coach nella produzione televisiva X Factor, ma parallelamente porta avanti un progetto personale, di brani originali e reinterpretazioni in chiave pop e jazz, che prenderà corpo in un album di prossima pubblicazione. Qui racconta di chiese e di talent, dell’importanza delle band e del suo nuovo progetto.

Quali sono le esperienze principali che hanno contribuito alla tua formazione?
Ho iniziato in maniera inconsapevole, cantando nel coro della chiesa, come molti altri artisti. La fortuna di avere un prete di mentalità molto aperta, che ci ha portato a cantare di fronte al papa e a Madre Teresa di Calcutta, mi ha permesso di misurarmi presto con palchi importanti. Sono stata abituata sin da subito a un modus operandi professionale: diretta da un maestro, due prove alla settimana, un lavoro di cesello. In questo senso, sono stata disciplinata al canto. Il coro ti insegna a entrare in relazione con gli altri musicisti, a capire cosa ti succede intorno, dal punto di vista melodico, armonico e ritmico: è fondamentale e lo impari da piccolo. Oggi non tutti i nuovi cantanti sono abituati a questo tipo di ascolto…

Per contro, la scena pop-commerciale e gli stessi talent show, che conosci da vicino, ci hanno abituato a un tipo di performance vocale in cui il cantante domina il palco e sembra poter fare a meno della band di supporto…
La dimensione live per un artista è imprescindibile, l’esperienza della band è senza pari. Non si può cantare sulla stessa base per vent’anni: avere un gruppo che ti circonda di note sempre diverse, è ciò che ti permette di crescere. Oggi purtroppo la maggior parte dei giovani vede il talent come l’unico modello da seguire, in cui il cantante è al servizio di una trasmissione, fatta di coreografie ed effetti pirotecnici, e dove il gruppo sembra scomparire. Quello che cerco di insegnare ai miei allievi è che si tratta invece solo di un trampolino di lancio: è un’esperienza formativa importantissima, che capita una volta nella vita e in cui vieni seguito da grandi professionisti del settore, ma una volta terminata bisogna lavorare sodo, senza “tirarsela”, confrontandosi con musicisti da cui poter continuare a imparare.

All’inizio della tua carriera hai partecipato a due edizioni di Sanremo (1997 e 1998, ndr). Rispetto ai talent e alle piattaforme web, che importanza può avere oggi partecipare al Festival per un “emergente”?
Sanremo ha una platea molto più vasta dei talent, ma paradossalmente per un cantante giovane può essere un’arma a doppio taglio: se è vero che dà grande visibilità, il pubblico è più old e questo può essere un vincolo alla creatività musicale. Il web invece non solo ti permette di raggiungere moltissimi ascoltatori ma anche di selezionare il tuo pubblico. D’altro canto, le piattaforme che ti fanno guadagnare due lire (vedi Spotify, ndr), quando dietro alla produzione di un disco ci sono mesi di lavoro e grandi investimenti, non sono un’alternativa sostenibile. Ma se non sul web, a Sanremo o nei talent, dove puoi farti sentire?

Affrontare l’interpretazione di una canzone assomiglia al lavoro dell’attore sul personaggio da portare in scena: come conduci questa ricerca?
Dipende: spesso i miei arrangiamenti nascono da un gioco con gli altri musicisti. In generale parto da testi che mi intrighino e che mi rappresentino: li analizzo in tutti i dettagli, cercando poi di dare una rilettura personale. Il resto sta al pubblico. Come dice Elisa, l’ascoltatore può leggere il testo in maniera diversa dall’interprete, e io voglio che ognuno recepisca il messaggio del brano in maniera personale e irriducibile.

Hai fatto parte della leggendaria Biba Band, da cui sono passati tanti grandi musicisti, alcuni purtroppo precocemente scomparsi: che cosa resta di quell’esperienza?
Ho lavorato con persone eccezionali. Ricordo con molto affetto Alex Baroni (morto in un incidente stradale nel 2002, ndr), intelligente e autoironico, con cui duettai nel 1991 in piazza Duomo… Aveva ancora tanto da dire, ha lasciato un grande vuoto. Un altro grande musicista che mi manca è Paolo Panigada, in arte Feyez, e ogni volta che salgo sul palco insieme a Elio e le Storie Tese è come se fosse ancora insieme a noi. Nella Biba Band ho sperimentato il desiderio di fare festa suonando: non c’era un solista fine a se stesso, tutti contribuivano a fare musica insieme al resto del gruppo. È molto difficile riorganizzare un ensemble così numeroso, ma abbiamo in programma di tornare in futuro sulle scene.

Obiettivi e propositi per il 2015?
A fine marzo dovrei concludere la mia ultima avventura discografica: sarà un album corale, pieno di ospiti – dagli Elii a Fabio Treves, con un brano scritto da Claudio Bisio. Non vedo l’ora che esca perché è un album che mi rappresenta molto. E poi vorrei riprendere a studiare il pianoforte, non è mai troppo tardi per imparare.

Foto di Giulio Gipsy Crespi

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